Dieci anni fa la morte di mons. Rahho. Sako: per l’Iraq è martire
Giada Aquilino - Città del Vaticano
Era il 29 febbraio del 2008 quando una banda armata attaccò e rapì l’arcivescovo di Mosul, mons. Paul Faraj Rahho: mentre usciva dalla sua chiesa, il commando sparò alle gomme dell’auto, uccidendo l’autista e due suoi collaboratori. Un sequestro conclusosi due settimane più tardi, il 13 marzo, con la morte del presule: il corpo senza vita dell’arcivescovo fu infatti ritrovato nei pressi di un cimitero abbandonato nel distretto di Karama. Sono trascorsi dieci anni e mons. Rahho “è considerato veramente un martire”, spiega Sua Beatitudine Louis Raphaël I Sako, patriarca di Babilonia dei caldei.
L’impegno per il riconoscimento del martirio
“Fu rapito ma ancora oggi non sappiamo se gli abbiano sparato, quindi se sia stato assassinato, oppure se sia morto per mancanza di medicine o per la paura”, prosegue il patriarca, in un momento in cui la Chiesa caldea si sta impegnando per il riconoscimento del martirio di mons. Rahho, con un dossier da presentare alla Congregazione delle Cause dei Santi: al momento, “il problema è relativo proprio alla sua morte, se sia morto per cause naturali o invece perché assassinato, come le tre persone che erano con lui e alle quali hanno subito sparato”.
I tentativi di liberazione
Nel 2008 in Iraq “mancavano l’ordine e la sicurezza” e a Mosul regnava la “confusione”, ricorda Sua Beatitudine Sako: l’arcivescovo “fu rapito anche per mettere paura ai cristiani, per spingerli a lasciare la città e ad andare altrove, per generare davvero il panico nella nostra comunità: prima di lui era stato rapito anche il vescovo siro-cattolico”. Al rapimento, seguirono giorni concitati, in cui anche Papa Benedetto XVI levò la propria voce per la liberazione del presule e per la pace in Iraq: all’epoca “ero vescovo di Kirkuk e mi sono trovato a negoziare, per vedere come fare per liberarlo, ma non abbiamo potuto, era molto difficile. Non sappiamo - aggiunge il patriarca - chi fossero i rapitori. Forse il rapimento era anche politicizzato, perché in quel periodo c’era una situazione di tensione tra i vari partiti politici e ognuno di questi voleva l’appoggio dei cristiani”.
I martiri dell’Iraq, senza distinzione di credo o etnia
Oggi, anche se Daesh non è completamente sconfitto, “la situazione in termini di sicurezza è molto cambiata, è migliorata e - assicura - i cristiani sono più liberi e non sono considerati più un obiettivo come prima”. Ma l’Iraq non dimentica il sacrificio dei suoi figli. “Abbiamo tutta una folla di martiri, sono tutti martiri, senza distinzioni”, al di là del credo religioso o dell’etnia. “Per noi - chiarisce il patriarca caldeo - è una ragione per rimanere, perseverare e sperare” nel futuro, ma pure “una forza straordinaria per mostrare la nostra fede: anche i musulmani ce lo dicono”.
L’ecumenismo del sangue
Papa Francesco, quando ricorda i cristiani perseguitati, parla di “ecumenismo del sangue”. La prova fornita dall’Iraq “è un modello, io direi non solo per i cristiani, ma tutti. Penso che, con questo sangue, ci sia in fondo qualcosa che cambia, la mentalità, la cultura, per qualcosa di più positivo. Adesso si parla di un cambiamento verso la democrazia in Iraq, si parla di cittadinanza. E secondo me tutto ciò è il frutto di questi martiri”.
Le elezioni politiche di maggio
Il Paese del Golfo si prepara ora alle legislative del prossimo 12 maggio. “C’è una volontà da parte degli iracheni di arrivare a un cambiamento, 15 anni dopo la caduta del regime. Proprio oggi - conclude Sua Beatitudine Sako - abbiamo fatto un appello ai cristiani affinché vadano a votare per coloro che ritengono siano i (candidati, ndr) migliori, per realizzare la pace in una società dove finora la vendetta ha avuto un posto importante”.
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