Don Otello, cappellano Ipm Treviso: i detenuti più giovani chiedono che senso ha vivere
Roberta Barbi – Città del Vaticano
Non accadeva dal 2003 che un minorenne – nel caso specifico un ragazzo di soli 17 anni – decidesse di farla finita in carcere, ma è accaduto quest’anno a Treviso: “In realtà il giovane di cui parliamo non era ancora in istituto, ma nel Cpa (centro di prima accoglienza, ndr), un percorso che probabilmente lo avrebbe portato comunque in carcere”. Sospira, don Otello Bisetto, il cappellano dell’Istituto di pena minorile del Veneto – sono 17 in tutta Italia – quando racconta ai media vaticani questa ennesima storia di dolore: “Era un senza fissa dimora, con un vissuto pregresso probabilmente problematico, quando è arrivato al centro chissà da quanto tempo non dormiva, chissà quali sostanze aveva assunto e poi…”.
Il carcere non è posto per tutti
Un caso come questo porta con sé i soliti interrogativi di cui tutti conoscono la risposta: “Probabilmente il carcere non era il luogo giusto per questo ragazzo, avrebbe dovuto essere inserito in una comunità o comunque in un luogo più adatto, anche se non sono io a doverlo dire”, prosegue scoraggiato don Otello che racconta come in quei giorni l’istituto avesse al suo interno molti problemi di ordine, segnalazioni di atti di autolesionismo e minacce suicide da parte di altri ristretti. “Agli ospiti, infatti, non abbiamo detto nulla di questo fatto anche se poi l’hanno appreso dalla televisione – spiega – soprattutto per evitare gesti di emulazione il cui rischio purtroppo esiste sempre”.
La speranza: l’unica arma contro il dolore
Fanno male al cuore alcuni dettagli della testimonianza di don Otello, al quale sempre più giovani chiedono che senso abbia vivere rinchiusi in un carcere: “Per portare loro la speranza che non delude mi aggrappo a queste loro domande”, che rivelano tanta disperazione ma anche la ricerca di una vita nuova. “Il mondo ci vuole perfetti, in salute, ricchi, belli, perciò questi giovani che si trovano soli, senza una famiglia che hanno perso o che non li ha voluti, si trovano allo sbaraglio, sono per così dire il rovescio della medaglia di questa società, e quando ti trovi per strada, prima o poi un reato lo commetti”. I dati italiani confermano il racconto del sacerdote, e registrano un incremento della criminalità giovanile che si trasforma in un’impennata di ingressi negli istituti minorili, tanto che in alcuni come quello di Bologna, è stato reputato necessario trasferire alcuni ospiti nella casa circondariale degli adulti, con tutte le conseguenze del caso.
Una società che non accoglie più
È sulla società, cioè su tutti noi, che ricade, quindi, la responsabilità di quanto accade: “Certo, il disagio in carcere è dovuto anche al sovraffollamento, ma non è l’unica causa – spiega il cappellano – non si riescono più a intercettare i bisogni dei giovani, i loro problemi, che non vengono affrontati prima che avvenga l’irreparabile, intendendo come l’irreparabile il reato”. Don Otello ricorda il passato, quando le istituzioni facevano sinergia e c’era una sorta di “patto educativo” tra parrocchie, scuola e famiglia: “C’era un’interazione maggiore che consentiva ai giovani di avere a disposizione luoghi positivi in cui anche sfogare le proprie frustrazioni piuttosto che le proprie energie – evoca – oggi la società dei disagi si accorge pure, ma non se ne fa carico, delega, e quei ragazzi che non hanno possibilità economiche restano indietro, per strada. Qui si formano le bande e poi chissà dove si arriva… inizia tutto da lì”.
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