Un mercato a Murhesa, nella provincia del Sud Kivu in RdCongo (Reuters/Victoire Mukenge) Un mercato a Murhesa, nella provincia del Sud Kivu in RdCongo (Reuters/Victoire Mukenge)

RD Congo, la speranza di ricostruire il Paese a partire dalle donne

La testimonianza di Ella Mindja, un’attivista avvocato originaria del Sud Kivu: "La sofferenza delle congolesi non deve essere vista come una fatalità, ma come una forza di trasformazione. Queste donne si alzano ogni mattina, nutrono la vita nel cuore del disastro. Sono la vera speranza"

Camille Mukoso - Nairobi

Il Nord e Sud Kivu, l’Ituri, Masisi o Goma: queste località e province sono diventate il teatro di una tragedia silenziosa. Gruppi armati si scontrano in nome di ideali politici, ma dietro i loro discorsi, spesso, sono l’oro, il coltan o la cassiterite a decidere il destino dei vivi. Le armi circolano, le frontiere si aprono e si chiudono a seconda degli interessi del momento. Potenze straniere sfruttano le falle dello Stato congolese, mentre multinazionali approfittano delle risorse estratte nella sofferenza. I bambini crescono in un esilio interiore, imparando troppo presto il linguaggio della paura. Le donne pagano il prezzo più alto. Vengono stuprate, sfollate, ridotte al silenzio. Ma, in questo caos, non sono solo vittime. Sono, soprattutto e spesso, attrici essenziali della sopravvivenza. Sono loro che nutrono, insegnano, curano le ferite invisibili.

Il prezzo umano della guerra

Ella Mindja è un avvocato e un’attivista originaria del Sud Kivu. È cresciuta nel cuore di un Paese in guerra, dove l’infanzia si impara tra le rovine e la paura diventa una compagna silenziosa. Dai villaggi di Bukavu alle tribune dell’Onu, Mindja ha portato la voce delle donne congolesi. Ha sostenuto cause davanti alla Commissione Africana per i Diritti dell’Uomo, all’Unione europea e persino al Consiglio di Sicurezza. Ovunque, lo stesso messaggio: "Le donne congolesi rifiutano la rassegnazione". Oggi, da Nairobi, dove sta seguendo un master in studi sulla pace e relazioni internazionali all’Hekima University College, continua a fare ciò che ha sempre saputo fare: dare voce a chi viene ridotto al silenzio.

Dolore e resilienza al cuore di una vocazione per la pace

"La guerra non è un ricordo lontano — dice — è una realtà che mi accompagna fin dall’infanzia". Le immagini che rievoca sono quelle che nessuno dovrebbe conservare: le urla, i cadaveri, la polvere da sparo, il kalashnikov sulla nuca. Ma tra questi frammenti di orrore, Mindja conserva anche altri ricordi: la solidarietà, i gesti d’amore, quell’ostinazione a vivere quando tutto sembra perduto. Questo doppio lascito — dolore e resistenza — ha forgiato la sua vocazione: fare del diritto un’arma pacifica. Il suo impegno non è nato da uno slogan, ma da una ferita. Di fronte all’ingiustizia, ha scelto la via del diritto. "Troppe perdite, troppi abusi impuniti… Il diritto mi è apparso come lo strumento più concreto per cambiare le cose". Negli sportelli di assistenza legale ha ascoltato le storie di donne spezzate dalla guerra, madri e figlie segnate a vita dalla violenza. "Dietro ogni dossier, ho capito che c’è una vita da riabilitare", confida. Da questa vicinanza con le vittime è nata la sua convinzione che la giustizia non può essere fredda. Deve avere un volto, un ascolto, una compassione.

Donne per la pace

Per Mindja, la pace non si decreta; si costruisce con chi è sopravvissuto. "Le donne devono occupare un ruolo centrale nei processi di pace, non solo perché sono vittime, ma perché sanno cosa significa ricostruire la vita". Denuncia quei negoziati condotti “tra uomini e per gli uomini”, dove le donne sono solo un contorno. "Molti accordi di pace falliscono perché dimenticano metà dell’umanità", sostiene con fermezza. La vera pace non può essere decretata dai palazzi del potere; nasce dalla vita quotidiana, dalla sopravvivenza, dalla solidarietà. In questo senso, la donna congolese è la prima diplomatica della pace, non delle parole, ma  dei gesti. Per questo, Mindja si batte per meccanismi concreti: sportelli legali, centri di supporto psicologico, e soprattutto la partecipazione diretta delle donne alle decisioni. "La pace non verrà dai discorsi, ma dalla dignità restituita a chi porta la vita in un Paese che distrugge".

La speranza declinata al femminile

Nonostante tutto, anche in Congo, la vita continua. Nei campi per sfollati, nei mercati improvvisati, le donne continuano a credere nella possibilità di un domani. Sono vedove, madri, orfane, ma restano in piedi. Mindja vede in loro le vere diplomatiche della pace, quelle che, senza titoli né tribune, tessono i legami invisibili che tengono insieme la società. Oggi, Ella Mindja riflette su cosa significhi “riparare un Paese”. Incarnando una generazione che vuole pensare la pace non come assenza di guerra, ma come presenza di giustizia. Il suo percorso, segnato dalla guerra e dalla resilienza, dimostra che la pace non è un sogno astratto, ma un lavoro quotidiano, una conversione dello sguardo e delle strutture.

"Ogni pietra conta per ricostruire il Congo"

Alle giovani congolesi che crescono nella paura, Mindja rivolge un messaggio: "La volontà di Dio non ci conduce mai dove la sua grazia non può sostenerci. Avete già dimostrato una forza straordinaria. Ora tocca a voi costruire, pietra dopo pietra, il Congo che vogliamo". E quando le si chiede cosa le dia ancora speranza, risponde: "La sofferenza delle donne congolesi non deve essere vista come una fatalità, ma come una forza di trasformazione. Queste donne si alzano ogni mattina, nutrono la vita nel cuore del disastro. Sono la vera speranza del Congo". Sotto la toga nera dell’avvocato, si intravede la luce di una persona che resiste. Ella Mindja non parla solo del Congo. Parla del mondo, di quella parte di umanità che sceglie la vita nonostante la guerra.

Grazie per aver letto questo articolo. Se vuoi restare aggiornato ti invitiamo a iscriverti alla newsletter cliccando qui

23 ottobre 2025, 11:45