Apertura della stagione di Santa Cecilia con la Valchiria di Wagner Apertura della stagione di Santa Cecilia con la Valchiria di Wagner 

La Valchiria di Wagner apre la stagione dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia

Un'opera lirica in un auditorium, uno sforzo produttivo inedito per riportare a Roma l'intero Anello del Nibelungo di Wagner eseguito l'ultima volta nella capitale italiana nel 1961

Marcello Filotei - Città del Vaticano

Allestire un'opera lirica in un auditorium pensato per la musica sinfonica è già un'idea originale. Programmarci l’integrale dell’Anello del Nibelungo in forma scenica diventa un progetto titanico. Bisogna andare indietro fino al 1961 per trovare nei programmi l'ultima volta che il ciclo è stato proposto a Roma, Internet non esisteva ancora e John Kennedy aveva appena prestato giuramento come 35.mo presidente degli Stati Uniti d'America. Quindi ben venga l'iniziativa dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia, che ha aperto ieri sera la stagione 2025-2026 con La Valchiria, il secondo “episodio” della saga, e fino alla stagione 2028-2029 continuerà su questa strada posponendo il prologo alla fine della “serie”. È vero che conosciamo tutti la storia, ma finire con l'inizio comunque spiazza un po', magari può servire a far venire la voglia di riascoltarlo da capo.

Inutile dire che il cast è di alto livello, con qualche riserva degli esperti, ma questo succede sempre all'opera. Alla fine della maratona d'ascolto, che è iniziata alle 18 per concludersi attorno alle 23, gli applausi sono arrivati con diverse gradazioni di entusiasmo per il Siegmund di Jamez McCorkle, la Sieglinde di Vida Miknevičiūtė, l'Hunding Stephen Milling, la Brünnhilde Miina-Liisa Värelä, la Fricka di Okka von der Damerau e il Wotan di Michael Volle. Ma il mattatore della serata è stato Daniel Harding, all'esordio nel ciclo del Ring, che ci ha abituato a letture estremamente dettagliate, analitiche, ancora più evidenti nella disposizione atipica dell'orchestra, necessaria quando si esegue un'opera in uno spazio pensato come un auditorio.

Forse questa rappresenta l'originalità e assieme il limite dell'operazione, perché se il lavoro del direttore viene esaltato, quello dei cantanti, che devono “bucare” un muro di suono imponente alzato proprio davanti a loro, può essere penalizzato in qualche momento. Il paradosso è che un progetto pensato probabilmente anche per avvicinare all'opera un pubblico più avvezzo alla sinfonica che alla lirica, finisce per esaltare la parte sinfonica dell'opera più che quella vocale. Ma forse non è un paradosso.

Non c'è bisogno di ricordare la perfezione dell'orchestrazione di Wagner e il suo processo compositivo fondato sull’uso dei Leitmotiv, brevi cellule tematiche associate a personaggi, emozioni o concetti che si trasformano e si intrecciano lungo il dramma musicale. Nella Valchiria, queste idee diventano il tessuto narrativo stesso: il motivo della spada (Notung) simboleggia il destino e la redenzione, quello dell’amore di Siegmund e Sieglinde esprime passione e fatalità, il motivo delle Valchirie incarna eroismo, mentre quello del sonno di Brünnhilde annuncia il sacrificio e la sospensione del tempo. È proprio attraverso queste continue metamorfosi dei Leitmotiv, che Wagner unifica musica e dramma in un flusso simbolico e continuo. Ed è proprio questa la “guida all'ascolto” che ci restituisce Harding, con estrema chiarezza, senso della forma, linearità, senza esagerare mai, che in Wagner è facile, fino ad arrivare alla famosa Cavalcata delle Valchirie con una tale naturalezza e con un garbo da non suscitare in nessuno il piacere per l'«odore del napalm al mattino».

L'altra faccia della medaglia riguarda la messa in scena. È evidente che lo sforzo è stato enorme, e ben pensato, ma per quanto l'idea “minimalista” sia necessaria e a tratti riuscita, in alcuni momenti si sente la mancanza del teatro.

Nelle note di regia Vincent Huguet rivela di avere trovato delle analogie tra la visione di Wagner e la città di Roma. «Indubbiamente il compositore tedesco, autore anche del libretto, si ispirò alla saga dei Nibelunghi e ad alcuni miti nordici. Ma era anche ossessionato dalla tragedia greca, dall'Italia e dalla cultura mediterranea. Ben presto sono emerse molte affinità, non solo tra i luoghi e i personaggi, ma anche nell'estetica e nella filosofia». Wagner scrisse la teatralogia alla metà dell'Ottocento, nell'epoca dei grandi imperi, e Roma è la città degli imperi, di vario genere. Il libretto descrive l'ascesa e la caduta del dominio di Wotan, e per raccontare questa storia Pierre Yovanovitch, che ha curato l'impianto scenico, ha immaginato un palazzo imperiale senza tempo, che potrebbe appartenere all'antichità o al quartiere Eur, e lo ha costruito su diversi piani collegati da scale che ricordano Piranesi. Ma forse ancora di più rimandano a De Chirico, al suo desiderio di recuperare la solidità e la misura dell’arte antica, al classicismo visionario, dove tradizione e mistero convivono con colonne spezzate adagiate a terra nel presagio della tragedia imminente. Le analogie nell'ottica di questa produzione vanno ancora più a fondo. I due personaggi al centro della vicenda, Siegmund e Sieglinde sono fratelli e amanti (all'opera succede) e, come Romolo e Remo, “figli del lupo”. Wotan, il re degli dei, somiglia a Giove, sua moglie Fricka è gelosa come Giunone e si potrebbe andare avanti. Ne deriva una corrispondenza scenica con la mitologia romana lampante, anche nei costumi Edoardo Russo che richiamano, mentre il light designer Christophe Forey cerca di dare colore e ambiente alle scene fatte di duelli, sangue, giuramenti d'amore incestuoso e inseguimenti su cavalli alati (in questo caso ombre proiettate sui muri come si faceva da bambini). Un'impero romano stilizzato, decadente, sull'orlo del precipizio, con le valchirie al posto dei senatori, ma con gli stessi tradimenti e voltafaccia. Del resto i classici si prestano alle più varie interpretazioni.

Lunghi applausi alla fine. Con il solito vezzo nel pubblico che ormai si riscontra ovunque, quello di alzarsi in piedi quasi a dimostrare che “io c'ero, ed è stato un evento irripetibile”. Forse sarebbe il caso di lasciare il protagonismo agli artisti e restituire alla standing ovation il suo carattere di eccezionalità.

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24 ottobre 2025, 15:44