Un primo piano di Momodu, che oggi sorride Un primo piano di Momodu, che oggi sorride

Giubileo dei poveri, Momodu: speranza è guardarsi con occhi diversi

In occasione della giornata di ieri, raccontiamo la storia di un giovane originario del Gambia, oggi 30enne, arrivato in Italia in cerca di un futuro migliore e per sfuggire alla violenza, finito in prigione ma riscattatosi in un nuovo percorso di vita grazie alla Comunità Giovanni XXIII: “In carcere ci sono più poveri che delinquenti”

Roberta Barbi – Città del Vaticano

Quella di Momodu purtroppo è una storia simile a quelle di tanti invisibili che arrivano nel nostro Paese senza trovare quello che cercavano. Storie disperate che qualche volta – come in questo caso – finiscono bene. Momodu vive in Gambia in un contesto violento in cui il padre lo picchia e la madre tace, per quella complicità ugualmente colpevole che accompagna ancora alcune culture. A 16 anni decide di fuggire da povertà e violenza e intraprende un rocambolesco viaggio lungo un anno che lo porterà in Italia.

Ascolta l'intervista con Momodu:

Qui, però, incontra altra povertà, altra violenza, rifiuto, e poi la droga: “Quando si è abituati al male non si può che fare il male”, è l’amara considerazione di chi, oggi, è consapevole, di aver compiuto alcune azioni semplicemente perché solo quelle aveva vissuto nella sua vita. E poi, giustamente, arriva il conto: “In carcere la maggior parte dei reclusi sono poveri come me che cercano di sopravvivere – racconta ai media vaticani – tanti veri delinquenti sono fuori”.

Capire per aiutare

La lente per interpretare nel modo giusto la storia di Momodu come molte altre storie di questo tipo, va ripescata nel passato più remoto del protagonista: “Avevo un rapporto molto difficile con mio padre – ricorda – ho subito molto, in silenzio, e il mio silenzio veniva interpretato come noncuranza, assenza di sofferenza, ma non era così Soffrivo tanto, poi, a 15 anni ho iniziato a reagire…”. Approda al dolore e alla povertà la ricerca delle motivazioni che hanno spalancato per questo ragazzo così giovane le porte del carcere: “Ce ne sono troppi come me dietro le sbarre – dichiara – non solo stranieri, anche italiani, perché la sofferenza la provano tutti…”.

Toccare il fondo per risalire

Come minore non accompagnato, nel nostro Paese Momodu finisce in comunità, poi, a 18 anni, inizia a collezionare reati e finisce ben due volte in carcere; la seconda volta nella casa circondariale di Forlì. Qui, dopo tre anni di detenzione, incontra la Comunità Giovanni XXIII che gli offre l’esperienza delle Cec, le comunità educanti con i carcerati: “I miei genitori erano morti a distanza di due giorni l’uno dall’altro, mio fratello era stato ucciso in discoteca – racconta ancora – sentivo l’abbandono, avevo perso la speranza e sono arrivato anche a tentare due volte il suicidio”. La Comunità lo sistema in stanza con un ragazzo disabile e questo cambia tutto: “Aveva bisogno di me, dovevo occuparmi di lui in tutto – ricorda con l’entusiasmo di chi per la prima volta scopre di essere prezioso e indispensabile per qualcuno – e piano piano questo ha fatto tornare nella mia vita la speranza”.

Guardare al futuro con occhi nuovi

Oggi Momodu si sta ricostruendo; presto andrà a lavorare assieme a due ragazzi con disabilità in un punto di ristoro a Rimini: “Sono molto contento, non credo che avrò difficoltà, lavoro bene con i disabili, sono persone speciali – conclude – la mia vita è cambiata quando ho iniziato a guardarmi non con i miei occhi, ma con gli occhi degli operatori e con gli occhi delle persone che avevano bisogno di me. È allora che la speranza è tornata”.

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17 novembre 2025, 09:30