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Preghiere in Terra Santa (foto d'archivio) Preghiere in Terra Santa (foto d'archivio)  (AFP or licensors)

Terra Santa, padre Poggi: nell'oscurità la luce della fede non scompare

Le ferite della guerra e le speranze per la pace nell'intervista al rettore del seminario del Patriarcato Latino di Gerusalemme

Emiliano Eusepi - Città del Vaticano

 "La storia ci ricorda che il conflitto non è iniziato il 7 ottobre 2023. Senza affrontare la storia più profonda e trovare giustizia per il popolo palestinese, la pace rimarrà irraggiungibile", afferma ai media vaticani padre Bernard Poggi, il rettore del seminario del Patriarcato latino di Gerusalemme, commentando l'accordo sulla tregua tra Israele e Hamas mediato dagli Stati Uniti. 

Quale è stata la reazione della comunità del seminario patriarcale latino all’annuncio dell’accordo portato avanti dal presidente degli Stati Uniti?

La nostra prima reazione lunedì è stata di gioia, ma quella gioia si è poi trasformata in sobria gratitudine e prudente speranza. Abbiamo accolto l'annuncio come un inizio, non una fine. Come affermato dal Patriarcato Latino, questo è un primo passo necessario verso la cessazione degli attacchi a Gaza e il rilascio di ostaggi e prigionieri, ma la storia ci ricorda che il conflitto non è iniziato il 7 ottobre 2023. Senza affrontare la storia più profonda e trovare giustizia per il popolo palestinese, la pace rimarrà irraggiungibile. Sua Beatitudine il Cardinale Pierbattista Pizzaballa ha spesso affermato che una pace vera e duratura richiede più di un cessate il fuoco: richiede la ricostruzione della fraternità attraverso il perdono e una nuova leadership politica e religiosa in grado di cambiare i vecchi schemi. Le ferite sono profonde; la fiducia è stata infranta. Ciò risuona profondamente con il costante richiamo di Papa Francesco che "in guerra tutti perdono" e che solo il dialogo, la liberazione dei prigionieri e l'accesso umanitario possono aprire un futuro. Come comunità del seminario, questo messaggio ci interpella direttamente. Viviamo a Gerusalemme e siamo chiamati a essere testimoni qui, non in modo astratto. La nostra preghiera, i nostri studi e il nostro impegno pastorale sono tutti animati da questa convinzione: che la fede ha una missione pubblica e riconciliatrice. E ci sono segni di speranza: La fermezza della comunità cristiana di Gaza, che nonostante sofferenze inimmaginabili, continua a sognare di ricostruire scuole per i propri figli e di offrire aiuto al maggior numero possibile di persone. La rapida mobilitazione di enti e associazioni cattoliche – come la Conferenza Episcopale Italiana (CEI) – che hanno risposto nonostante la devastazione per dire che ci aiuteranno a costruire un ospedale per assistere tutti i feriti e i senza assistenza sanitaria. Subito dopo il cessate il fuoco, i corridoi umanitari e gli sforzi di soccorso riportano la vita. Questi non sono gesti vuoti; sono semi di riconciliazione, segni che il Corpo di Cristo rifiuta di lasciare che l'odio abbia l'ultima parola.

Quale è stato l’Impatto della guerra sulla formazione dei seminaristi e come guarire le ferite che il conflitto ha creato?

La guerra ha colpito i nostri seminaristi in modi visibili e invisibili. In pratica, le restrizioni di viaggio e le ambasciate chiuse hanno complicato gli incarichi pastorali e ritardato i visti. Alcuni seminaristi devono recarsi fino a Cipro per ottenere un visto perché l'ambasciata in Giordania è rimasta chiusa dall'inizio della guerra. Queste sfide logistiche sono reali, ma sono anche diventate occasioni di resilienza. I nostri sacerdoti che vengono a insegnare in seminario non ricevono visti. Sì, nonostante queste politiche ingiuste e nonostante ai nostri figli l'accesso a Gerusalemme resti difficile, Gerusalemme rimane parte di noi e noi rimaniamo parte di Gerusalemme e di questa terra. Questa è la nostra determinazione. Spiritualmente, la guerra spazza via le illusioni. Quando la vita è fragile, tutto ciò che è secondario svanisce. Come dico spesso ai seminaristi, quando le cose sono difficili, le persone si rivolgono a Dio, e così facciamo noi. È in questi momenti che la fede viene purificata e resa più visibile. La nostra risposta è stata quella di intensificare la formazione piuttosto che il ritiro: Abbiamo incrementato i corsi sulla dottrina sociale cattolica – sulla dignità umana, il bene comune e la pace – per aiutare i nostri futuri sacerdoti a parlare in modo significativo della sofferenza del loro popolo. Formiamo seminaristi, sacerdoti e suore a una cura pastorale e un’attenzione consapevole dei traumi che possono essere stati causati delle situazioni di conflitto che stiamo vivendo. Approfondiamo la nostra preghiera comunitaria e l'accompagnamento per coloro che sono stati colpiti direttamente e indirettamente dalla violenza. La via di guarigione della Chiesa passa attraverso giustizia e misericordia insieme. Il Cardinale Pizzaballa ha sottolineato che la ricostruzione richiederà tempo e richiede una rinnovata leadership e fraternità. Sicuramente Le cicatrici della guerra non scompariranno il giorno in cui le bombe smetteranno di cadere. La guerra lascia un segno indelebile: diventa parte della nostra memoria collettiva. Ma anche lì, la Grazia opera. Nell'oscurità, la luce della fede non scompare; e la fede diventa più chiara, più acuta, più necessaria.

Quale è la reazione locale a questi nuovi sviluppi del conflitto, nel paese di Beit Jala, e come si prepara la strada della pace nella parrocchia e nel Seminario?

Beit Jala, sede del Seminario Patriarcale, è una città a maggioranza cristiana vicino a Betlemme. La reazione locale riflette la posizione della Chiesa: gratitudine per la pausa nelle ostilità, ma anche un realismo lucido sulla lunga strada da percorrere, soprattutto di fronte all'occupazione e alla violenza in corso. La vita della nostra parrocchia è rimasta vivace. Tre anni fa, poco prima della guerra, abbiamo avviato corsi di formazione spirituale per i laici e la risposta è stata notevole. Le persone hanno fame di formazione, di una fede che parli alla vita reale. Nella nostra catechesi, mettiamo l'accento sul perdono, sulla ricerca della verità anche quando la realtà politica è cupa e sulla ricostruzione della fiducia all'interno della comunità. È proprio qui che la testimonianza a Gerusalemme e nella nostra Terra diventa concreta: vivere il Vangelo non come un rifugio dalla storia, ma viverlo come una luce all’interno  della complessità della storia per poter arrivare ad illuminarne gli angoli bui . Il Cardinale Pizzaballa ha affermato: "La speranza è figlia della fede". Non si tratta di un vezzo poetico, ma di una strategia pastorale. Quando la paura e l'incertezza si fanno sentire, l'unica risposta duratura è tornare alla fonte della fede. La nostra comunità coltiva questa fede attraverso: Intercessione liturgica: l'Eucaristia, l'Ufficio Divino e l'Adorazione prolungata per la pace. Discernimento basato sulla Scrittura e accompagnamento spirituale che affronta il dolore con onestà, ma lo trasforma con carità e verità. Atti concreti di misericordia, perché la fede deve farsi carne. La preghiera non è passiva; è il motore dell'agire morale. Essa tiene sotto controllo la disperazione e dà ai seminaristi la forza di stare al fianco del loro popolo. Ogni atto di preghiera diventa un atto di testimonianza. Siamo chiamati a dare testimonianza a Gerusalemme, proprio nel luogo in cui la Croce e la Resurrezione si sono incontrate. Se i nostri seminaristi impareranno a fare questo qui, in mezzo all'incertezza e alla paura, porteranno questa testimonianza ovunque la Chiesa li manderà.

 In quale modo la comunità del seminario è vicino alle vittime del conflitto?

La missione principale del seminario è la formazione sacerdotale, ma una formazione senza carità è vuota. All'inizio della guerra, sentirsi impotenti era una vera tentazione. Ma ci siamo rifiutati di cedere. Ho radunato i seminaristi e li ho portati in un orfanotrofio locale. Abbiamo trascorso l'intero pomeriggio semplicemente con i bambini: giocando, ascoltando, aiutandoli a ritrovare la gioia. È stato un piccolo gesto, ma è stato un atto di testimonianza consapevole. Il nostro rapporto con Gaza, è di prossimità, spirituale e anche fisica perché non è lontana; ero lì con il Patriarca quattro anni fa, e quel ricordo mi plasma. Preghiamo ogni giorno per i nostri fratelli e sorelle a Gaza, contribuiamo con le nostre modeste risorse, restiamo in contatto. Questo è il nostro modo di partecipare alla più ampia missione umanitaria della Chiesa. Ogni gesto, per quanto piccolo, può diventare un segno di comunione che sfida la logica della guerra.

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21 ottobre 2025, 14:53