La storia di Giovanni: le ferite della droga, le feritoie da cui Dio mi ha raggiunto
Daniele Piccini – Città del Vaticano
Non importa se sei già suo amico o se lo conosci per la prima volta. Incontrare Giovanni è sempre una bella esperienza. Stretta di mano sincera. Sorriso aperto. Sguardo accogliente. Artigiano, 60 anni, sposato con due figli, cresciuto nella periferia di Roma est, prima al Quarticciolo, poi a Tor Sapienza, infine, dal 1996, da sposato, ancora al Quarticciolo. Nessuno sospetterebbe, a prima vista, che questo uomo così genuino e trasparente, sia dovuto passare attraverso oscurità, errori e continue cadute verso l’abisso. Ma forse non c’è altra strada. Perché l’oro si raffina con il fuoco, nel crogiuolo, come insegna la Bibbia nel libro del Siracide. Una sapienza vera, ma dura: attraverso la sofferenza si giunge ad una fede matura ed alla vita piena.
La prima volta con l’alcol
“Il mio primo bicchiere di vino l’ho bevuto a 9 anni”, dice con la confidenza di chi ha raccontato già tante volte la sua storia ai giovani, nella speranza di preservarli dagli stessi errori dei “grandi”. “Mio padre – ricorda Giovanni - è stato un alcolista e un violento. Beveva dai vinaioli quando staccava dal cantiere. Poi veniva a casa ed erano botte. Come tutti gli alcolisti era egocentrico, egoista, pieno di sé. Sono cresciuto senza autostima, perché mio padre mi diceva di continuo che non capivo niente, non sapevo fare niente e non contavo niente. Io, mia madre e i miei quattro fratelli siamo cresciuti nella paura”.
Paura del padre
Nel bicchiere Giovanni crede di trovare una soluzione, quel po’ di coraggio artificiale in grado di schermarlo, da bambino, dalla paura e dall’ansia di vivere in un ambiente familiare pieno di ostilità e minacce. “Mio padre a casa picchiava tutti: me, mia madre, i miei fratelli. Nella sua furia rompeva gli specchi e ci prendeva a cinghiate. Cercava qualsiasi pretesto per sfogare la sua violenza su di noi. Nemmeno quando ci invitavano alle feste di matrimonio potevamo rilassarci. Si ubriacava, diventava grossolano e ci metteva a disagio. Aveva dentro una rabbia di cui nemmeno lui sapeva l’origine. Una rabbia che io ora so riconoscere bene, perché l’ho avuta anche io, dopo, e sono diventato addirittura peggiore di lui. Tutto quello che lui ha fatto a me da bambino, io poi l’ho fatto subire alla mia famiglia”.
Le droghe, gli abusi, la doppia vita
A 11-12 anni, Giovanni consuma i primi spinelli, le prime dosi di eroina e cocaina. Si sente abbandonato dai genitori, respinto, non amato. Nel periodo della crescita e della strutturazione della personalità arriva la confusione sessuale. Ragazzi più grandi abusano di lui. Cresce in fretta. Comincia a vivere di notte e a tornare a casa nelle prime ore del giorno, quando il padre dorme e non può vederlo tornare. Finché, come spesso accade, da semplice consumatore si ritrova spacciatore, per avere la “roba” sempre a portata di ago. A 18 anni conosce Vincenza, che ne ha 13. “Non ci siamo più lasciati”, dice mostrando la fede nuziale al dito. Ma nemmeno il matrimonio è un modello di serenità. Giovanni conduce una vita parallela, fatta di droghe e di una sessualità confusa, fuori controllo. Una vita schizofrenica, di cui la moglie non sa e non deve sapere nulla. Nei suoi peggiori stati di allucinazione dovuti all’uso del crack, si ritrova a parlare allo specchio con Satana o a vedere scene sconce proiettate sulle pareti di casa o sul pavimento.
L’esperienza del carcere
Il suo giro di spaccio si allarga e un giorno, all’aeroporto di Fiumicino, viene fermato con addosso dosi di ecstasy che era intenzionato a piazzare sul mercato olandese. La Polizia approfondisce e in casa trova anche delle armi. Giovanni finisce nel carcere romano di Rebibbia. “Ho passato dietro le sbarre gli anni migliori della mia vita, dai 24 ai 30 anni”, commenta con malinconia. “Il carcere ovviamente mi ha peggiorato. Ho conosciuto criminali di calibro superiore al mio e mi è passata la paura della reclusione. Così, una volta uscito, ho perso anche gli ultimi freni inibitori”, spiega lasciando immaginare la sua vita “dopo” il carcere.
Il grido verso Dio
Tutto questo è andato avanti fino ai 40 anni. “Poi un giorno, ero da solo in casa e ho avuto un infarto. Mi sono inginocchiato in terra pieno di terrore e ho gridato al Cielo: ‘Dio, se è vero che esisti, dammi una mano, perché sto morendo!’. Questo è il punto di svolta della mia storia, il momento in cui Dio mi ha messo, come si dice, la mano sulla testa”. Un amico, che già li frequentava, lo porta ad un incontro degli Alcolisti Anonimi. È il 2005 e Giovanni inizia un percorso di cura e di psicoterapia che gli tocca la testa, la bocca e il cuore.
“Ho capito che la terapia, in fondo, non era che un’applicazione degli insegnamenti del Vangelo, una ricetta fatta di fede e psicologia. Quando, prima della lettura del Vangelo, ci si fa il segno della Croce, infatti, si toccano proprio la testa, la bocca e il cuore. Mi mancava l’amore e ho cercato di sostituirlo con l’alcol, il sesso e le sostanze, finché non ho trovato l’amore di Dio, che mi ha ridato dignità. L'alcolismo è una malattia dell'anima. Chi è stato alcolista una volta, lo è per sempre. La battaglia interiore contro il proprio alcolismo è un cammino che dura tutta la vita, in questo senso è come la fede. Ora sono diventato ‘sponsor’, ossia parlo alle persone con il mio stesso problema e le aiuto”.
Ridare agli altri la speranza
Giovanni viene chiamato a raccontare la sua esperienza negli ospedali e nelle scuole. Dà il suo numero di telefono mobile a chiunque abbia bisogno di lui, pronto a restituire agli altri quella speranza e quell’aiuto che lui stesso per primo ha ricevuto. Nel 2012 assiste alle catechesi dei Dieci Comandamenti, a Roma, che gli danno quelle risposte che ancora mancavano al puzzle caotico della sua vita. Giovanni ora è catechista, partecipa con assiduità ai gruppi di formazione spirituale proposti dalla sua parrocchia, alle prove del coro e ai pellegrinaggi nei luoghi significativi per la fede cristiana. È già stato due volte in Terra Santa, nella Spagna del sud, in Trentino.
“Sento di avere un rapporto particolare con Gesù: comprendo e vivo dentro di me tutto quello che dice nel Vangelo, come se mi parlasse personalmente. In questi 20 anni – dice infine con un sorriso che appare come una perla uscita da mille contrazioni di dolore - da quando non bevo e non uso più droghe, so di aver salvato tante vite di tanti ragazzi”.
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