Vicariato dell’Arabia meridionale, Martinelli: una ricchezza di vita cristiana
Roberto Paglialonga – Città del Vaticano
«La nostra è una Chiesa di migranti. E questa è una caratteristica che rende il nostro vicariato unico nel mondo». A parlare con i media vaticani è il vescovo Paolo Martinelli, frate cappuccino. Papa Francesco nel maggio 2022 l’ha nominato vicario apostolico dell’Arabia meridionale, giurisdizione territoriale della Chiesa cattolica che comprende gli Emirati Arabi Uniti, l'Oman e lo Yemen. «Di fatto non ci sono cattolici di cittadinanza locale, da noi», aggiunge Martinelli, che incontriamo mentre si trova a Roma per partecipare con un gruppo di pellegrini provenienti dalla Penisola arabica ai Giubilei dei migranti e del mondo missionario: «Tutti i nostri fedeli provengono da Paesi molto diversi, e vengono per lavorare» con permessi che vanno sempre rinnovati alla loro scadenza temporale, giustificando i motivi della permanenza. «Abbiamo contato circa 100 nazionalità, e questo crea della nostra regione l’immagine di una Chiesa veramente composta dalle genti», dice. È il tratto dell’universalità del cattolicesimo, che pur nelle differenze fa sì che, qui più che altrove, tutti possano ritrovarsi uniti «nella stessa fede, nello stesso battesimo, nello stesso corpo di Cristo, pur con carismi, ministeri, talenti e tradizioni particolari, che proprio in virtù di questa unione possono interagire e fecondarsi vicendevolmente». Si tratta, sottolinea Martinelli, di una «ricchezza plurale di vita cristiana».
La presenza cattolica
Una pluralità, e una diversità, che si evincono anche dal peso dei cattolici nei tre Paesi. Perché, sebbene la stragrande maggioranza sia di fede musulmana, ci sono «presenze importanti all’interno di ciascuna realtà». Nei soli Emirati, su una popolazione di circa 10 milioni di persone, sono oltre 850.000 i battezzati, mentre in Oman sono circa 100.000 su 4,5 milioni di abitanti. Nello Yemen, invece, è più difficile fare stime, ammette il vicario, «per l’assenza, in questo momento, di una Chiesa strutturata». Inoltre, va detto che «la pandemia ha condizionato molto la presenza di lavoratori stranieri» in tutti i luoghi nella Penisola arabica.
I due Giubilei
Un gruppo di fedeli dalle terre dell’Arabia meridionale parteciperà ai due Giubilei, il programma il 4 e 5 ottobre. «Ma una rappresentanza nutrita è stata già a Roma per il Giubileo dei giovani, poi per quello dei catechisti abbiamo avuto il grande dono del conferimento del ministero a una nostra catechista», Catherine Miles-Flynn, che da trent’anni vive negli Eau. Adesso, la combinazione in una sola giornata delle celebrazioni per missionari e migranti è «decisamente significativa, così come significativo è che il messaggio di Papa Leone» per la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato 2025 «sia quello di essere “missionari di speranza”»: ad avviso di Martinelli, ciò «mostra una consapevolezza più matura della Chiesa rispetto ai migranti». Infatti, oltre «all’attenzione ad essi come tali, così come ai loro diritti, c’è una visione ecclesiale: migranti non solo come oggetto di attenzione, ma come soggetto di vita cristiana, con una particolare missione all’interno della comunità e del mondo». Significa che «i nostri fedeli hanno la consapevolezza di essere portatori di una fede che sono chiamati a testimoniare. In un contesto fortemente caratterizzato dall’Islam nessuna forma di proselitismo può essere attuata, ma nessuno, d’altro canto, può impedirci di essere testimoni della nostra fede nella vita, nel modo di stare in famiglia, al lavoro, a scuola, nelle relazioni sociali». Essere migranti, dunque, diventa in questo quadro una «occasione favorevole per vivere il nostro essere cristiani, per essere missionari come testimoni dell’incontro che abbiamo fatto con Dio».
Il dialogo interreligioso
Lo stesso dialogo interreligioso «deve essere sempre riempito con una testimonianza: vivere la propria fede nella relazione con persone di fedi diverse», spiega. Questo è ciò che «ci fa vivere stabilmente nel provvisorio, e lo dico sempre ai nostri fedeli: non siete migranti per caso, dovete concepirvi come “mandati” per uno scopo». E aggiunge che le stesse fatiche connaturate all’essere migranti creano nelle persone «un desiderio di riscoprire la propria fede nel suo rapporto con la vita quotidiana». Ne discendono conseguenze evidenti per le modalità di interpretare e vivere il dialogo. Negli Emirati c’è una tradizione legata anche «al viaggio di Francesco, alla firma del Documento sulla Fratellanza umana e alla fondazione della Abrahamic Family House: segni di esperienze di confronto, conoscenza vicendevole, superamento di stereotipi, nonché di consapevolezza che tante tradizioni diversificate possono in realtà contribuire alla creazione di una società più fraterna». Non è dunque solo una reciproca conoscenza di dottrine, ma «lo scoprire che, pur essendo differenti, possiamo condividere un percorso comune di umanizzazione, per esempio ricordando la centralità di Dio nella vita». In Oman, invece, il fondamento è più quello della tolleranza, ovvero della capacità di «aiutare la gente a vivere buone relazioni sociali attraverso lo sviluppo di una buona relazione con Dio». Quindi più che promuovere un dialogo interreligioso, «si fa in modo che ciascuno possa vivere la propria appartenenza religiosa e, quindi, camminare insieme agli altri». Un contesto profondamente diverso è invece quello dello Yemen. Il Paese si trova ancora in una situazione di grande povertà, dopo ormai dieci anni di guerra civile (scoppiata nel 2014 tra gli houthi, che controllano la capitale Sana’a e sono alleati delle forze sostenitrici dell'ex presidente Ali Abdullah Saleh, e i lealisti del governo di Abd Rabbuh Mansur Hadi, con sede ad Aden), anche se il conflitto interno non è più in primo piano. Il nord, infatti, è oggi per la gran parte coinvolto nel conflitto tra Israele e Hamas. Questo «rende difficile fare progetti di ripresa e rinascita a lungo termine, anche se — ricorda il vicario — la Caritas è presente soprattutto nel sud, e l’obiettivo è di provare a far rinascere una presenza della Chiesa come tale. Mentre nella parte settentrionale al momento ci sono solo due comunità delle suore di Madre Teresa che portano avanti opere di carità verso chiunque sia nel bisogno». Presenze, dotate di una forza tranquilla, nella consapevolezza di poter essere veramente, come chiede Leone XIV, “missionari di speranza” in un mondo funestato da guerre, ingiustizie e tante strutture di peccato.
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