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Mozambico, le strade di Nampula, nel nord del Paese Mozambico, le strade di Nampula, nel nord del Paese

Il Mozambico schiacciato dallo sfruttamento delle risorse e da indicibili violenze

Il Paese africano sta vivendo una drammatica ondata di violenza perpetrata da miliziani islamici che l’intervento dell’esercito mozambicano affiancato da quello ruandese non riesce a fermare. In fuga migliaia di contadini. Padre Filippo Macchi: “Per paura del terrorismo, di questi assassini, di queste devastazioni, tanta gente scappa, poi torna per cercare di salvare il raccolto, per riprendere con una nuova semina. Ma ciò moltiplica il disagio, la povertà, la precarietà di queste persone

di Enrico Casale

Le armi non tacciono nel Nord del Mozambico. L'insurrezione, scoppiata nel 2017, continua a mietere vittime. L'intervento dell'esercito ruandese a fianco di quello mozambicano ha contenuto l'offensiva dei miliziani islamisti e l'ha rallentata, ma non l'ha fermata del tutto. A farne le spese è la povera gente, perlopiù contadini. Agricoltori che vivono coltivando i loro campi vedono i loro villaggi invasi, devastati e i loro amici e parenti uccisi brutalmente, spesso decapitati. Secondo il ricercatore Peter Bofin, citato dall'agenzia di stampa Lusa, dal primo attacco avvenuto il 5 ottobre 2017 nel distretto di Mocímboa da Praia sono stati registrati 6.257 morti, di cui almeno 2.631 civili.

La strategia dei miliziani

Negli ultimi anni, i miliziani affiliati al sedicente Stato Islamico hanno modificato la loro strategia, operando in piccole cellule mobili difficili da intercettare. «Questo consente loro di muoversi su gran parte della provincia, mettendo sotto pressione le risorse delle forze di sicurezza», ha spiegato Bofin. Nonostante la riduzione dei combattenti – stimati in meno di 400 contro i circa 2.000 del 2021 – il gruppo rimane altamente attivo e capace di destabilizzare l'area. Tra agosto e settembre, gli attacchi si sono intensificati, costringendo quasi 22.000 persone alla fuga da tre distretti, secondo le agenzie delle Nazioni Unite. A vivere in questa situazione di instabilità continua è don Filippo Macchi, sacerdote fidei donum della diocesi di Como, che opera nella parrocchia di Mirrote, diocesi di Nacala, nel territorio al confine tra la provincia di Cabo Delgado – la più colpita dal fenomeno jihadista – e quella di Nampula.

Migliaia in fuga dalla violenza

«Periodicamente ci sono tentativi da parte dei miliziani di attraversare il fiume tra la provincia di Nampula e quella di Cabo Delgado – spiega Macchi -. Attualmente il contingente militare ruandese e i reparti dell’esercito mozambicano sono riusciti a contenere l’avanzata. Purtroppo, non ce la fanno a reprimere completamente il fenomeno, e i raid si susseguono continuamente. Nella nostra provincia, il più grave è stato, tre anni fa, l’uccisione di suor Maria De Coppi e la distruzione della sua missione. A Cabo Delgado, invece, gli attacchi sono continui. Nelle due province si vive comunque in uno stato di insicurezza permanente». Ciò causa migliaia di sfollati. Sono contadini che, spaventati dalle violenze, cercano rifugio nelle città. I raccolti vanno persi e la loro vita, nelle periferie, diventa precaria, senza prospettive future. Ancora don Filippo: «Per paura del terrorismo, di questi assassini, di queste devastazioni, lasciano la loro terra per concentrarsi nelle città in cerca di fortuna o, almeno, un'opportunità di sopravvivenza. C'è tanta gente che scappa, poi torna per cercare di salvare il raccolto, per riprendere con una nuova semina. Ma ciò moltiplica il disagio, la povertà, la precarietà di queste persone».

Le motivazioni della violenza

Gli insorti attivi a Cabo Delgado sono conosciuti localmente come al-Shabab (da non confondere con l'omonimo gruppo somalo) e dal 2019 hanno giurato fedeltà allo Stato islamico, che li riconosce come Provincia dello Stato islamico in Mozambico (Iscap). Secondo studi dell’Institute for Security Studies (Iss) e del progetto Cabo Ligado, si tratta di milizie nate dall’unione di predicatori radicali, giovani disoccupati e contrabbandieri locali. Le motivazioni dell’insurrezione affondano sia nell’estremismo religioso sia nel profondo malcontento verso lo Stato, accusato di corruzione e di escludere le comunità locali dai benefici dei ricchi giacimenti di gas, rubini e legname di Cabo Delgado.

Gli interessi legati alle risorse

«All'inizio - continua don Filippo -, era una presenza soprattutto di stranieri; negli ultimi anni, ormai, hanno reclutato parecchi giovani mozambicani che, in assenza di prospettive con la mancanza cronica di lavoro, rassegnati a un destino di povertà, facilmente si lasciano abbindolare da chi gli promette il paradiso a buon prezzo e gli propone gloria e soldi nell'immediato. Questo è anche contro la natura della nostra gente, perché qui la presenza islamica, soprattutto nel litorale, non ha mai avuto una connotazione integralista e ha sempre convissuto con la religione tradizionale e con i cristiani. La cosa che mi stupisce è che sono violenti con la povera gente: decapitano, uccidono, bruciano case. Attaccano soprattutto villaggi con azioni mordi e fuggi e poi si nascondono con la popolazione locale». La presenza dei militari del Ruanda ha dato un aiuto importante nel ridimensionare il fenomeno e la popolazione guarda con favore alla presenza dei militari di Kigali e di Maputo. «Nessuno però ha capito qual è l'interesse del Ruanda in quest'area - osserva il sacerdote. -. Qual è il tornaconto? Nella nostra area ci sono tanti interessi legati allo sfruttamento dei giacimenti di petrolio, gas e delle risorse minerarie. Sfruttamento che interessa a tanti, compresi nordamericani ed europei. Il problema è che questa terra è abbandonata a se stessa. Nonostante le mille promesse da parte delle autorità, la gente si sente sola, senza speranze. Non si vede un cambiamento vero, le persone sono molto, molto stanche, esasperate». A ciò si aggiungono gli effetti, sempre più devastanti, dei cambiamenti climatici. «Un tempo - conclude il religioso -, si registrava un ciclone ogni tre o quattro anni. Adesso ogni anno ce n'è uno, se non di più. Lo scorso anno ne sono passati tre e hanno devastato tutto: case, campi, infrastrutture. Le comunità si sono ritrovate con nulla. Una tragedia che si aggiunge all’instabilità e spezza la forza di questo popolo pacifico».

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12 ottobre 2025, 09:00