Il vice premier del Libano: la preghiera del Papa al porto ci aiuterà a guarire dalle ferite
Francesca Sabatinelli – Città del Vaticano
La preghiera silenziosa di Papa Leone XIV a Beirut al porto, sul luogo dell’esplosione del 2020, sarà “importante perché aiuterà tutti noi, l’intera comunità, a guarire le ferite di questo tragico evento”. Il vicepremier libanese Tarek Mitri, a Roma in questi giorni, non nasconde l’attesa per la visita del Pontefice in Libano, dal 30 al 2 dicembre prossimi, il cui programma prevede una sosta laddove persero la vita 218 persone e altre settemila rimasero ferite. Mitri, greco ortodosso, membro del Consiglio Ecumenico delle Chiese, che il 25 ottobre scorso è stato ricevuto in udienza dal Papa e il segretario di Stato Pietro Parolin, spiega come la tappa in Libano, che seguirà quella in Turchia, sarà un momento in cui il Papa mostrerà la sua attenzione e il suo sostegno spirituale alle vittime dell’esplosione “che ha lasciato profonde cicatrici tra le famiglie, forse tra tutti i libanesi” e la cui origine è ancora oggetto di indagini. “Noi, come governo, stiamo facendo di tutto per sostenere la magistratura che in Libano, così come in molti altri Paesi democratici, è indipendente. Il nostro appoggio è per far sì che possa svolgere il suo lavoro e completarlo il più presto possibile”. Mitri non nasconde che l’inchiesta è stata “estremamente difficile e molto lenta”. A cinque anni di distanza ancora non si conoscono le ragioni della tragedia, non si sa “chi potrebbero essere le persone i gruppi o i Paesi che stanno dietro a quello che è accaduto, o se si è trattato solo di un incidente e, in tal caso, la negligenza è anch'essa una sorta di reato”.
La convivenza più forte dei conflitti
La visita del Papa si svolgerà nel centro della città “che è stato il campo di battaglia di tutti i conflitti civili del Libano”, prosegue Mitri. Leone XIV incontrerà i giovani, che non hanno vissuto la guerra ma che, in un certo senso, ne sono stati anche loro feriti, anche a causa dei numerosi conflitti successivi che il Libano ha attraversato. “Dal Papa si aspettano una parola di pace, e la conferma che il Libano sia ancora un Paese dove il dialogo e la convivenza sono possibili perché non sono mai venuti meno, nonostante tutta la violenza intercomunitaria che abbiamo vissuto”. Nessun libanese, aggiunge il vicepremier, “direbbe mai che non siamo più in grado di vivere insieme. Quindi, alla fine, la convivenza è stata più forte dei nostri conflitti”.
Il dialogo della vita
Il Libano è caratterizzato da quello che gli stessi suoi cittadini definiscono ‘il dialogo della vita’: persone che continuano a vivere insieme nonostante tutto e che condividono ancora “molti valori, anche di origine religiosa. Hanno le stesse opinioni sulla vita, sulla morte, sull’amore, sulla misericordia di Dio, magari usano linguaggi diversi, ma i valori sono comuni. C’è poi l’antropologia della convivenza, con le stesse abitudini, lo stesso cibo”. Tarek Mitri, classe ’50, ricorda come la sua generazione abbia avuto amici al di là delle appartenenze religiose: “Non sapevamo se i nostri amici erano musulmani o cristiani, poiché l’amicizia era un legame forte che trascendeva le nostre differenze”.
Le religioni nei conflitti
Per quanto riguarda l’oggi, Mitri non vede un problema tra le religioni, quanto il fatto che “nei conflitti ci possono essere parti che strumentalizzano sentimenti religiosi, a volte persino idee religiose, dottrine religiose, per alimentare i conflitti, e quindi, in questo caso, trovare una soluzione politica al conflitto non è sufficiente”. Importante è “eliminare l’interferenza religiosa dai conflitti politici e usare la religione come una risorsa per la pace, piuttosto che come un modo per aggravare il conflitto”. Alla base di molta violenza oggi, che sia prodotta da guerre o da conflitti interni, si trova “l’affermazione della nostra specificità rispetto all’altro, che si tratti di superiorità o di paura di inferiorità”. I conflitti dunque possono avere una dimensione religiosa, sebbene non siano guerre di religione. “Non si litiga per la dottrina, per chi verrà salvato o per chi è sulla giusta via verso la salvezza. Non è per questo che ci si scontra, lo si fa per la terra, per interessi, per confini. E per l'identità. E poi la religione entra in gioco come una dimensione aggiuntiva a questi conflitti. A volte viene sovrapposta in modo artificiale. A volte emerge nel corso degli sviluppi di una società in cui la visione religiosa del mondo a volte definisce chi siamo e chi sono gli altri. E invece di aiutarci a colmare il divario tra noi e gli altri, lo allarga”.
Giustizia, verità e perdono
Per Mitri, che ha al suo attivo una lunga carriera come mediatore, dal 2012 al 2014 è stato Rappresentante Speciale e Capo della Missione Onu di Supporto in Libia, fondamentale è riconoscere che nelle situazioni di raggiungimento di una pace precaria, di un cessate-il-fuoco, bisogna essere consapevoli che “nessuna pace può essere stabilizzata se non vengono affrontate le cause profonde che spesso sono legate a questioni di giustizia. Anche la verità è altrettanto importante, poiché giustizia e verità sono inseparabili. E laddove si parla di verità si parla anche della possibilità di perdono, che a sua volta è un correttivo al senso ristretto di giustizia”. Mitri conclude ricordando come esista la giustizia distributiva, ma anche restitutiva, “una giustizia giusta, che aiuti sia la vittima che l’oppressore a guarire i propri ricordi e a perdonare. Quando la vittima perdona l’oppressore, allora tutto si placa e si può essere sicuri che i conflitti che hanno diviso la società non si ripeteranno”.
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