IA, le sfide all'umano guardate con gli occhi della teologia
Federico Piana - Città del Vaticano
Parlare con monsignor Piero Coda di IA, Intelligenza Artificiale, è come fare un viaggio sorprendente alla scoperta della vera essenza dell’uomo, alle prese con una continua rivoluzione tecnologica che ne mette in discussione la sua stessa auto-comprensione. Lo sguardo da teologo - lui è segretario generale della Commissione teologica internazionale - gli fa dire che «la teologia, davanti al fenomeno incalzante dell’affermarsi dell’impiego dell’ IA, è chiamata in causa in prima persona: perché senz’altro ci troviamo di fronte - come non si stanca di ripetere Leone XIV - a una cosa davvero nuova e urgente, di enorme portata e ancora di indeciso esito, nella storia dell’umanità e, diciamolo pure, del cosmo».
Qual è l’aspetto più evidente di tutto questo?
È quello, imprescindibile, che la teologia in quanto intelligenza critica della fede è chiamata a dare. E riguarda il discernimento del significato e delle implicazioni che l’impiego dell’ IA riveste nella promozione del bene autentico e integrale di ogni persona e dell’intera società. Si tratta, in altri termini, d’interpretare e vagliare le innovazioni propiziate dall’IA nella luce performante — come scrive il Vaticano II nella Gaudium et spes — del Cristo «crocifisso e risorgente». Non solo, dunque, del Cristo che è risorto «una volta per sempre», ma, proprio per questo, che continua a risorgere nel suo Corpo vivo, formato da coloro in cui agisce la sua stessa vita, guidando e orientando con la forza del suo Spirito, secondo il disegno d’amore di Dio, la trasformazione del mondo sino a che giunga al suo gratuito compimento nel Regno dei cieli.
E poi?
Non si tratta solo di richiamare il rispetto e la promozione degli irrinunciabili criteri etici cui deve ottemperare ogni agire umano per essere conforme alla dignità infinita della persona, ma anche di porre la domanda e indirizzare la risposta a proposito della qualità dell’ambiente inedito di esercizio della vita, del pensiero, dell’incontro e dell’azione che, di fatto, l’IA contribuisce in modo determinante, ma non per sé sufficiente, a creare. Ma ancora di più e — direi — in prima e radicale istanza, la teologia non può non interpellare criticamente la coscienza umana con l’interrogativo cruciale che l’uso stesso del lemma «intelligenza artificiale» mette sul tappeto: che cos’è l’intelligenza?
Si può con pertinenza parlare di una intelligenza che è artificiale? Qui sta il punto. Come già qualche anno or sono ha fatto puntualmente notare Éric Salobir, il nome stesso di «intelligenza artificiale» appare infatti segnato da un «peccato originale»: perché è «un nome di battesimo in cui coesistono un senso tecnico e un significato mitico». Lo ha ribadito, del resto, Papa Francesco nel messaggio per la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali dello scorso anno: «L’utilizzo stesso della parola “intelligenza”» in riferimento all’IA — ha scritto — «è fuorviante».
Molti esperti sostengono che, in un futuro non tanto breve ma certo, l’IA arriverà a modificare profondamente la comprensione che l’uomo ha di se stesso: secondo lei, questa possibilità potrebbe compromettere la ricerca di Dio da parte dell’uomo, potrebbe rendere disarmonico anche il rapporto che lo stesso uomo ha con i suoi simili e con il Creato?
l pericolo c’è, come sempre accade in ogni conquista positiva che l’essere umano raggiunge nell’avventura in cui Dio l’ha posto. E in definitiva, ancora una volta, sta tutto nel cedere alla tentazione dell’idolatria: e cioè nel prostrarsi davanti al “vitello d’oro” che si è costruito con le proprie mani. La tentazione radicale è questa. Già parecchi anni fa, con preveggente intuito, un fisico — e divulgatore scientifico di alto bordo — come Piero Pasolini scriveva lapidario che «l’umanità in blocco, il giorno in cui perdesse la coscienza del proprio processo di trascendenza che ne condiziona gli atti e le aspirazioni a qualcosa — Qualcuno — al di là di se stessa, sarebbe all’inizio del suo processo di degradazione e di dissoluzione».
Tutto questo dovrebbe interpellarci nel profondo...
Ora, proprio questo esiziale e persino fatale pericolo, di cui, purtroppo, non possiamo non costatare giorno dopo giorno le tragiche conseguenze sulla pelle, anzi nella carne viva dei più fragili e dei più deboli — che come ci dice Leone XIV nella Dilexi te è la carne stessa di Cristo — non può non interpellarci a vivere con visione e responsabilità la risorsa straordinaria e inesauribile che si sprigiona, direbbe Antonio Rosmini, «dalle viscere della Rivelazione».
Lo intuiva, nella prima metà del secolo scorso, Henri Bergson nel suo Les deux sources de la morale et de la religion. Già solo tenendo conto del grado di sviluppo raggiunto dalla tecnica al suo tempo — e che oggi, grazie all’IA s’è spinto a confini allora impensabili — il filosofo scriveva: «La natura, dotandoci di una intelligenza essenzialmente creatrice, aveva preparato per noi un certo ingrandimento» e le «macchine», frutto dell’ingegno umano, «sono venute a dare al nostro organismo una estensione così vasta e una potenza così formidabile, così sproporzionate alla sua dimensione» che «in questo corpo smisuratamente ingrandito, l’anima resta ciò che era, ormai troppo piccola per riempirlo, troppo debole per guidarlo».
In definitiva, è questo «supplemento d’anima» che ci è chiesto. Ma ci è chiesto perché gratuitamente ci è stato donato, e continuamente ci è ridonato e implementato, dal «Cristo crocifisso e risorgente» che opera nei nostri cuori e nelle nostre menti mediante lo Spirito Santo.
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