In Ciad, tra i profughi sudanesi in fuga dalla guerra
Giada Aquilino - Città del Vaticano
Sono «principalmente donne e bambini» i sudanesi che scappano dal Sudan in guerra e che arrivano in Ciad, «ma ciò che adesso colpisce maggiormente è che sono in aumento i numeri dei minori non accompagnati: nelle ultime settimane ne sono giunti più 200, questo significa che a essere partite sono principalmente famiglie ma che, durante il tragitto, i genitori o le persone più adulte sono state uccise, quindi i bambini hanno continuato la traversata da soli o con qualcuno dei più grandi». Fratel Fabio Mussi, missionario del Pime, economo del vicariato apostolico di Mongo, nella parte centro-orientale del Ciad, è appena tornato dalle zone di frontiera col vicino Sudan, dove dall’aprile 2023 il conflitto tra esercito di Khartoum e paramilitari delle Forze di supporto rapido (Rsf) ha provocato quella che l’Onu ha definito «la peggiore crisi umanitaria al mondo»: più di 13 milioni di persone costrette a spostarsi all’interno o all’esterno dei confini nazionali per tentare di fuggire dalle violenze, che — in un bilancio stimato e difficile da verificare per la profonda insicurezza sul terreno — hanno causato la morte di decine di migliaia di persone, oltre a una grave insicurezza alimentare che colpisce più della metà degli oltre 40 milioni di sudanesi.
Dati «esatti» sono difficili da concretizzare anche per il numero di profughi e rifugiati giunti in Ciad, ma fino a ottobre, quando i paramilitari hanno conquistato El Fasher, nel Nord Darfur, «c’erano circa 950.000 sudanesi, poi in questi ultimi due mesi ne sono arrivati altri 200.000, quindi al momento superano abbondantemente il milione», riferisce il missionario, che come consigliere della Caritas diocesana si occupa anche dei progetti di emergenza per gli sfollati.
L'emergenza dopo la caduta di El Fasher
Mentre i combattimenti in Sudan si sono spostati nei territori del Kordofan dopo l’ingresso dell’Rsf a El Fasher, in Ciad si vive «una nuova fase dell’emergenza: abbiamo organizzato una missione nella provincia di Wadi Fira, 150 chilometri più a nord, dove al campo di Tiné stavamo già lavorando con i rifugiati e dove stanno affluendo ancora persone che scappano dai massacri» in Sudan. L’urgenza per i più piccoli attualmente è quella di «collocarli» in strutture sicure e «l’Unicef sta organizzandosi per creare dei centri di prima accoglienza, da dove poi verranno indirizzati ai vari campi, cercando di ritrovare parenti o famiglie del loro villaggio che se ne possano prendere carico».
Gli aiuti
«Abbiamo deciso di riprendere la distribuzione di viveri e coperte — un invio ci sarà pure il prossimo mese — ai nuovi arrivati: sono persone che viaggiano soltanto con un fagottino sulla testa, quando c’è! E i vestiti che hanno adesso non sono adatti a questo periodo, qui lo chiameremmo freddo, perché la temperatura, che di giorno è sui 37-38 gradi, scende fino ai 15 gradi, quindi con una forte escursione termica. C’è dunque bisogno di una coperta o di qualcosa per ripararsi, perché poi le malattie respiratorie sono quelle che influiscono di più sulla salute di queste persone», racconta fratel Mussi. A Tiné, «dove ci sono al momento circa 1.200 persone e in cui operano organizzazioni come la Croce Rossa e Medici senza frontiere, ci hanno chiesto di provvedere all’illuminazione notturna, anche per motivi di sicurezza: quindi è partita una squadra della nostra diocesi per consegnare almeno otto lampioni solari da collocare ai vari angoli del campo, per assicurare un minimo di tranquillità».
La speranza di un Natale senza guerra
La Caritas diocesana di Mongo, supportata dalla «rete ecclesiale di varie Caritas diocesane, come per esempio quella Ambrosiana che adesso partecipa a un progetto di perforazione di nuovi pozzi, il Pime e vari organismi umanitari tedeschi», porta avanti inoltre progetti iniziati nel 2023 in altri campi, come quelli di Farchana e Métché. «Attualmente stiamo seguendo 38 gruppi agricoli già nati l’anno scorso e ulteriori 20 che si stanno organizzando: sono formati da donne rifugiate e anche locali che intervengono sui terreni a disposizione, circa 2.500 metri quadrati, per coltivare degli orti e produrre legumi e ortaggi, che poi vengono venduti nel mercato locale». Una iniziativa che punta a prendere coscienza della necessità di un impegno che coinvolga «loro stesse» per uscire dalla «spirale di dipendenza dall’aiuto esterno».
Con uno sguardo all’approssimarsi del Natale, il missionario si augura «che la guerra in Sudan davvero finisca e che questa realtà, già molto dimenticata, non sia completamente lasciata fuori. Anche se siamo lontani, in mezzo all’Africa, la speranza è che questa gente che vive la crisi sudanese non venga abbandonata e non rimanga da sola nella propria sofferenza».
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