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Sfollati dalle violenze a Uvira verso il confine col Burundi Sfollati dalle violenze a Uvira verso il confine col Burundi 

RD Congo, il vescovo di Uvira: gli sfollati muoiono di fame. Si rischia la balcanizzazione

Monsignor Sébastien Joseph Muyengo Mulombe parla con i media vaticani dell’emergenza umanitaria, dopo che i ribelli dell’M23 hanno annunciato il ritiro dalla città dell'est del Paese africano. “Regna una calma apparente ma la gente rimane diffidente”, riferisce. Intanto almeno 85.000 persone in fuga dalle violenze si sono riversate nel vicino Burundi

Giada Aquilino - Città del Vaticano

Sono almeno 85.000 le persone fuggite nel solo Burundi a causa delle ultime violenze dell’M23 in Sud Kivu, nella parte orientale della Repubblica Democratica del Congo. All’inizio di dicembre il gruppo armato, in lotta con l’esercito di Kinshasa e sostenuto - secondo l’Onu e vari rapporti internazionali - dal Rwanda, che nega però ogni addebito, ha lanciato una nuova offensiva nella provincia: gli ultimi attacchi hanno causato, ha denunciato l’Unicef, uno sfollamento totale di almeno 500.000 persone, di cui 100.000 bambini. «Da Bujumbura e dintorni, così come da Rumonge, le notizie che ci giungono riferiscono delle pessime condizioni in cui vivono i congolesi ammassati nei campi profughi, altri negli stadi e negli spazi aperti, esposti alle intemperie di questo periodo di piogge, senza coperte, cibo, medicine», riporta ai media vaticani monsignor Sébastien Joseph Muyengo Mulombe, vescovo di Uvira, città sul Lago Tanganyika, al confine col Burundi, dove la scorsa settimana sono entrati i ribelli, dopo che a febbraio avevano conquistato il capoluogo del Sud Kivu, Bukavu, e a gennaio quello del Nord Kivu, Goma, in un contesto di instabilità e guerre che nell'area si protrae da oltre trent'anni.

L'accordo siglato a Washington e le accuse di violazioni

Venerdì scorso l’ambasciatore americano alle Nazioni Unite, Mike Waltz, aveva denunciato in particolare «l’ampiezza e la sofisticatezza» del coinvolgimento nell’est congolese di Kigali, che avrebbe dispiegato tra i 5.000 e i 7.000 soldati. Subito dopo, il segretario di Stato Usa, Marco Rubio, aveva parlato di una «chiara violazione» da parte del Rwanda alle intese firmate il 4 dicembre, quando a Washington, sotto l’egida del capo della Casa Bianca Donald Trump, i presidenti congolese e rwandese, Félix Tshisekedi e Paul Kagame, avevano siglato un accordo di pace. Poi ieri l’M23 ha annunciato che ritirerà le proprie forze da Uvira, in Sud Kivu, «come richiesto dai mediatori statunitensi»: non ha però specificato una tempistica del ritiro, tanto che in serata, secondo fonti di stampa, gruppi di miliziani occupavano ancora la città, pattugliando punti strategici e strade.

Le incognite sul terreno

Al momento a Uvira, testimonia il presule, «regna una calma apparente: non si sentono più raffiche di proiettili ovunque né si verificano molte violenze contro la popolazione come prima, ma la gente rimane diffidente, viste le esperienze del passato e ciò che è successo recentemente a Goma, Bukavu, Kamanyola», spiega con chiaro riferimento agli attacchi di inizio mese contro i civili, proprio mentre a Washington si siglava l’intesa tra i presidenti congolese e rwandese. Ora, «come tutti - prosegue monsignor Muyengo Mulombe - abbiamo appreso la notizia della decisione dell’M23/AFC (Alleanza del Fiume Congo, coalizione di gruppi ribelli all’interno della quale il principale è l’M23, ndr) di ritirarsi unilateralmente da Uvira, in conformità con la richiesta della “mediazione americana” e anche di alcuni Paesi dell’Ue, come il Belgio, in altre parole nell'ambito degli accordi firmati a Doha e ratificati a Washington. Si tratta di una cosa positiva, ma che lascia aperte molte domande», riflette il vescovo. Si chiede infatti se tale decisione riguardi «solo Uvira o anche i dintorni» della città, perché «nel frattempo continuano ad avanzare verso sud, nel territorio di Fizi, in direzione di Kalemie, nel Katanga». Si domanda inoltre che ne sarà «delle altre città cadute in precedenza, come Bukavu, Goma, Misisi, Rutshuru». E ancora un quesito: «Se gli Stati Uniti e gli altri possono oggi imporre con autorità una tale decisione, perché non l’hanno fatto prima, per evitarci tante vittime?». Quindi, il vescovo riporta il pensiero della gente di Uvira: «Per molte persone qui, questa decisione fa parte di una strategia, una manovra volta a placare la comunità internazionale» mentre di fatto si punterebbe a una sorta di «balcanizzazione del Paese».

Un dialogo inclusivo

Nel frattempo la crisi umanitaria è gravissima, ulteriormente peggiorata rispetto alle cifre fornite dalle Nazioni Unite ad inizio 2025 quando erano almeno 4,6 milioni gli sfollati interni tra il Nord e il Sud Kivu. Negli ultimi giorni «abbiamo elaborato un progetto di emergenza che - spiega - abbiamo presentato ad alcuni amici in Francia, in Italia e anche al nostro governo. Stiamo aspettando delle risposte, ma nel frattempo le persone, soprattutto molti bambini, donne, anziani, malati continuano a soffrire, se non addirittura a morire di fame, sete, stanchezza, freddo, malattie», lancia l’allarme monsignor Muyengo Mulombe. La Chiesa locale, aggiunge, rimane con la gente, a cui domenica ancora una volta è arrivata la vicinanza di Papa Leone XIV. Subito dopo la recita dell’Angelus, il Pontefice ha espresso «viva preoccupazione» per la ripresa degli scontri nella parte orientale della Repubblica Democratica del Congo, esortando «le parti in conflitto a cessare ogni forma di violenza e a ricercare un dialogo costruttivo, nel rispetto dei processi di pace in corso». «A Uvira - racconta il presule - abbiamo riportato sulle frequenze della nostra Radio Notre Dame de Tanganyika e attraverso i vari gruppi dei social network diocesani la preoccupazione del Papa, affinché cessino queste violenze e tutti si impegnino fermamente nel processo di pace che passa innanzitutto attraverso un dialogo inclusivo, come sollecitato anche dai vescovi della Cenco (la Conferenza episcopale nazionale del Congo) e dell’Ecc (la Chiesa di Cristo in Congo)». Una via, quella del dialogo inclusivo, osserva monsignor Muyengo Mulombe, che ridurrebbe il rischio «di svendere le risorse del Paese», dall’oro al coltan, a «coloro che pretendono di venire a liberarci, mentre in realtà ciò a cui mirano sono piuttosto le nostre terre, le nostre risorse, i nostri minerali rari e strategici, la nostra riduzione in schiavitù».

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17 dicembre 2025, 14:36