Primo Levi, il ricordo di Edith Bruck: "Auschwitz non finisce mai"
Eugenio Murrali - Città del Vaticano
"Primo Levi era un grande scrittore, un grande testimone, una persona eccezionale dal punto di vista morale", ne è convinta la scrittrice Edith Bruck, che lo ha conosciuto ed è stata sua amica. Chimico di formazione, l'autore torinese fu recluso ad Auschwitz nel 1944. Riuscì a sopravvivere e, dopo la liberazione, ha dato vita, negli anni, a libri fondamentali. Tra gli altri: "Se questo è un uomo" (1947), "La tregua" (1963), "I sommersi e i salvati" (1986).
Nel centenario dalla nascita dell'autore, la scrittrice ungherese naturalizzata italiana, che come Primo Levi ha vissuto l'esperienza di Auschwitz e l'impegno della testimonianza, ci racconta la complessità di una figura centrale del Novecento, capace di lasciare il racconto immortale di un dolore incancellabile.
Edith Bruck, lei ha frequentato a lungo Primo Levi. Come lo ricorda?
R. – L’ho conosciuto negli anni Settanta a Torino. Poi ci siamo visti moltissime volte a Roma; ci scrivevamo anche, e quindi sono rimasta in contatto con lui fino all’ultimo giorno. Quando seppi da suo cognato che si era suicidato, urlai, alzandomi da tavola: “Ma allora cosa posso fare io, con lui che si è permesso di suicidarsi?”. Dissi che la sua vita non apparteneva soltanto a lui, ma al mondo. Fui molto dispiaciuta: penso che abbiamo perso il testimone più importante, uno scrittore importante, e un amico fraterno per me: noi ci chiamavamo “sorella e fratello dei lager”. Per me fu una perdita molto dolorosa e lo è ancora oggi. Lo è sempre.
Quanto importante è stata la sua testimonianza?
R. – Lui è stato il testimone più importante, quello più ascoltato e più conosciuto in tutto il mondo. Io credo che la perdita della sua voce e della sua presenza sia stato un danno enorme per tutti, non soltanto per noi sopravvissuti, ma anche per i giovani, perché lui era un grande scrittore, un grande testimone, una persona eccezionale dal punto di vista morale. Secondo me lui ha vissuto questa esperienza terribile ed estrema anche dal di fuori, nel senso che era un osservatore, un intellettuale, un ex partigiano: con questo voglio dire che io avevo 12 anni e non potevo quindi vedere le cose con i suoi stessi occhi. Lui ha vissuto tutto, rispetto a molti, dall’interno e dall’esterno, perché era molto acuto nell’osservare quello che accadeva intorno a lui, e aveva quindi, fin dall’inizio, un giudizio morale molto profondo su quello che aveva intorno. Forse ha sofferto molto più degli altri, perché si rendeva conto di quello di cui l’uomo era capace. Sono rare le persone che sono riuscite a dare un giudizio morale continuo di quanto accaduto.
A proposito del suo tatuaggio, che era il numero 174517, Primo Levi scrive: “A distanza di 40 anni, il mio tatuaggio è diventato parte del mio corpo…”
R. – Il critico Paolo Milano diceva di me: “La Bruck è tatuata nell’anima. Perché deve vergognarsi? È l’umanità che deve vergognarsi di quello che ha fatto”. È un marchio che rimane per tutta la vita, e fa parte non del corpo, ma dell’anima. Il corpo è una cosa esteriore, e invece il tatuaggio fa parte del lato interiore della persona: del suo cuore, della sua mente, della sua carne, e di tutto. Perché è un marchio spaventoso, come quello su un animale. Sinceramente credo che domandare di far vedere il tatuaggio sia una richiesta vergognosa. A me lo hanno chiesto in televisione ed è inaccettabile, è un’umiliazione totale. Primo Levi è stato capace anche di tornare ad Auschwitz, mentre io non l’ho mai fatto e mai potrei farlo. Però forse lui, nella sua fragilità o debolezza, è stato molto più forte di tanti altri sopravvissuti. Alcuni sopravvissuti vanno ad Auschwitz; io potrei morire. Ciascuno vive le esperienze a modo suo, secondo la propria forza e sensibilità. Non siamo mai uguali anche se abbiamo vissuto quasi la stessa cosa. Lui ha detto che i veri testimoni sono i morti, quelli che non sono tornati. Su questo io, però, non sono d’accordo, perché i morti non possono parlare. L’idea è molto bella, molto poetica, ma nella realtà è impossibile da praticare. Non ero d’accordo su questo come sul senso di colpa per essere sopravvissuto. Ne abbiamo discusso varie volte: avevamo un diverso sentire.
Lei come percepiva il senso di colpa che Primo Levi viveva per essere sopravvissuto?
R. - Aveva visto tutti morire intorno a sé. Può darsi che lui avesse un minimo di privilegio in quanto chimico. Avevano bisogno dei chimici e dei medici - professioni, se vogliamo, nel disastro, privilegiate -, quindi lo tenevano. E' possibile che ci siamo nascosti durante la selezione dietro a una persona più alta - io poi ero piccola - o ci siamo spinti l’un l’altro, perché in fondo ci avevano ridotto a uno stato animale. Non è che ci fosse solidarietà o riguardo verso gli altri, ognuno lottava per la propria vita e non è escluso che uno lottasse più dell’altro. Può darsi che anche io mi sia nascosta dietro a un’altra che è stata scelta al posto mio. Io non ho mai strappato dalla bocca di nessuno un pezzo di crosta o un pezzo di rapa. Non ho mai danneggiato nessun altro, però per puro caso potevo anche girarmi un pochino, perché dovevi essere invisibile quando venivano a selezionare. Non dovevi essere visto: io chiudevo gli occhi e credevo che, se io non avessi visto Mengele, lui non avrebbe visto me. Tutti tremavano durante le selezioni che venivano fatte molto spesso ad Auschwitz. Forse per questo Primo Levi diceva che noi siamo sopravvissuti al posto degli altri. Però io non sento assolutamente questo senso di colpa.
Se dovesse consigliare un libro di Primo Levi a un ragazzo o a qualcuno che non conosce questa storia, quale indicherebbe?
“Se questo è un uomo”, ma anche “I sommersi e i salvati”. Per tutta la vita lui ha esaminato quello che ha vissuto. Era un grande scrittore, non soltanto un testimone. Molte volte riducono i sopravvissuti che scrivono al solo ruolo di sopravvissuti. No, lui era uno scrittore. Ha avuto la sfortuna di vivere questa storia e quindi è stato giusto che ne abbia scritto tutta la vita, perché Auschwitz non finisce mai, Auschwitz vive con te fino alla morte. Non riesci a superare questo trauma, non riesci assolutamente a liberartene e non devi neanche liberartene, secondo me.
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