I figli dell'Asia in rivolta: giovani voci da Filippine e Indonesia
Guglielmo Gallone - Città del Vaticano
Chi lo avrebbe mai detto che ad unire una parte di mondo come l’estremo Oriente, storicamente frammentato e diviso, sarebbe bastato un hashtag sui social network. #SEAblings è nato quasi per scherzo, trattandosi di un gioco di parole tra siblings, “fratelli”, e SEA, South-East Asia, ma anche lo stesso “mare” che bagna parte di questa regione. Eppure, sta diventando il modo attraverso cui i giovani di Filippine, Indonesia, Timor Est e persino di Paesi vicini come Nepal e Bangladesh stanno gridando al mondo la loro partecipazione alle proteste di piazza di queste settimane.
Cosa unisce i giovani asiatici
Proteste che, oltre al fatto di avvenire nel continente asiatico e nello stesso periodo, hanno in comune almeno tre punti: unire i giovani; essere rivolte contro le élites locali; far emergere la rabbia per l’incapacità della politica di risolvere le crescenti disuguaglianze economiche, di affrontare il fardello della corruzione locale e in fondo di dare alle nuove generazioni una prospettiva di vita. Ecco dunque spiccare, da TikTok a Instagram fino a X, foto di manifestazioni a Manila, video delle marce studentesche di Jakarta, immagini degli scontri in corso davanti al parlamento di Kathmandu, tutte sotto l’hashtag #SEAblings. Dalle immagini emergono simboli pop globali che hanno valore politico: la bandiera con il teschio e il cappello di paglia di One Piece, segno di ribellione contro la corruzione; il saluto a tre dita di Hunger Games, gesto di sfida ai regimi autoritari; i riferimenti a Harry Potter, usati già nel 2020 dai thailandesi contro la monarchia. Tre le considerazioni più evidenti. La prima: come nel caso di Sri Lanka (2022) e Bangladesh (2024), questi movimenti evitano volutamente leader carismatici, riflettendo la mancanza di percorsi di carriera credibili. Poi, il primo terreno di incontro non è più la piazza, bensì lo schermo di uno smartphone. La terza: i giovani asiatici stanno costruendo un immaginario collettivo animato dagli stessi desideri di futuro e dalla frustrazione verso un sistema politico giudicato inadeguato.
La testimonianza di Carmelle, dalle Filippine
Lo conferma al nostro giornale Carmelle, una giovane di Cebu, provincia delle Filippine nella regione del Visayas centrale: «Quello che alimenta davvero questa rabbia è una lunga storia di cattiva governance e corruzione. Siamo stanchi di vedere decisioni prese senza trasparenza di cui i più vulnerabili pagano il prezzo». Quando le chiediamo se ritiene che tra i giovani ci sia un senso di incertezza verso il futuro e di disillusione verso la politica, Carmelle conferma che «questi sentimenti sono molto diffusi tra i miei coetanei. Facciamo i conti con un mercato del lavoro instabile, un aumento dei problemi di salute mentale senza sostegno, la distruzione dell’ambiente mascherata da progresso, un sistema educativo pubblico sottofinanziato e sovraffollato. Vediamo gli effetti della corruzione nelle infrastrutture fatiscenti, nella sanità inaccessibile e nel divario tra ricchi e poveri».
Dal Nepal all'Indonesia
Aspetti che emergono anche in Nepal con le proteste contro i “nepo kids”, cioè i figli dei politici, e anche in Indonesia, come racconta al nostro giornale Joanita, una giovane giornalista locale. «Qui i giovani vivono nell’incertezza, tra contratti a breve termine, costi urbani elevati, mentre le élite più anziane sono protette da reti di contatti, beni accumulati e politiche di lungo corso. Non è un caso che i lavoratori informali, come i driver di Gojek o Grab, siano diventati simboli di queste proteste». Tuttavia, precisa Joanita, «queste tensioni intergenerazionali non sono solo contro la corruzione o contro la disuguaglianza. Tra i valori centrali ci sono equità, merito, trasparenza, partecipazione pubblica e qualità dei servizi pubblici. Molti manifestanti parlano di una società più inclusiva, sostenibile e orientata al welfare».
La disillusione verso la classe dirigente
È questo un altro aspetto che sembra unire le due testimonianze. Dalle Filippine, Carmelle non crede che il problema sia «la struttura di base del sistema politico. Ciò di cui abbiamo bisogno è una nuova generazione di leader: non importa a quale partito appartengano, il loro obiettivo dev’essere servire il popolo con integrità e offrire risultati concreti». In questo senso, se Joanita richiama la rivoluzione indonesiana che nel 1998 portò alla fine del regime di Suharto, Carmelle richiama quella filippina del 1986 contro l’ex presidente Ferdinand Marcos Sr: «Le manifestazioni di oggi — aggiunge la giovane filippina — pur diverse nella forma e nel contesto, richiamano quello spirito: unità, coraggio e il rifiuto di restare in silenzio di fronte alle ingiustizie».
Un rischio tutt'altro che isolato
Queste rivolte mettono così in luce un problema tipico dei Paesi asiatici emergenti: la mancanza di basi fiscali solide per sostenere uno sviluppo dignitoso. In questo contesto, la politica si riduce a mero distributore di risorse limitate, spesso a favore dei più ricchi, anziché a costruttore di un’economia produttiva e accessibile. Un sistema fiscale debole e la forte dipendenza dall’estero impediscono una crescita autonoma. E, come dimostra il caso del Nepal che dagli anni Novanta ha promesso una svolta in termini di inclusione, neppure le aperture democratiche sono sufficienti. Così come potrebbero non bastare i cambiamenti di governo attuati in questi giorni in Nepal o in Indonesia. Un rischio da non sottovalutare non solo per i singoli Paesi, ma ancor più per l’instabilità di un’area che, tra crisi regionali e ambizioni di attori esterni, è sempre più sotto i riflettori.
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