Un grido dall'est congolese: "Fermare i massacri e portare la pace"
Giada Aquilino - Città del Vaticano
Una "ennesima e orribile carneficina". È con queste parole, accompagnate da profondo dolore, che monsignor Melchisédech Sikuli Paluku, vescovo di Butembo-Beni, ha descritto la sanguinosa violenza che la scorsa settimana, nella notte tra l’8 e il 9 settembre, ha preso di mira il villaggio di Ntoyo, nel Nord Kivu, nella parte orientale della Repubblica Democratica del Congo, già scossa da instabilità e insicurezza profonde. Gli abitanti, perlopiù cristiani cattolici e protestanti, si preparavano ad assistere a una veglia funebre quando, dalla vicina foresta, una colonna di uomini armati ha attaccato la popolazione inerme. Almeno 89 i morti e decine le abitazioni e i veicoli dati alle fiamme nel raid, attribuito alle Adf, le Forze democratiche alleate, gruppo armato ribelle nato in Uganda che ha giurato fedeltà al sedicente Stato islamico (Is): si tratta di una delle tante sigle delle fazioni armate attive nel quadro conflittuale dell’est congolese, che perdura da più di 30 anni e vede agire anche la milizia M23 (Movimento 23 marzo), supportata secondo esperti dell’Onu da almeno 4.000 soldati rwandesi, per quanto Kigali abbia sempre negato ogni accusa su un proprio ruolo nella guerra in corso nel Paese africano.
La violenza e i massacri quotidiani
Dopo l’attacco a Ntoyo, gli abitanti — circa 2.500 — hanno abbandonato la zona e hanno cercato rifugio nel vicino agglomerato minerario di Manguredjipa, a 7 km, dove peraltro si trovavano truppe dell’esercito di Kinshasa, al fianco delle quali dal 2021 è schierato pure un dispiegamento di militari ugandesi.
Eppure "dal 2014, ogni settimana, quasi tutti i giorni, ci sono massacri", testimonia da Butembo Justin Muhindo Masinda, presidente dell’associazione “Famiglia missionaria senza frontiere”, che si occupa di progetti di sviluppo educativo, sanitario e umanitario nel Nord Kivu e anche a Ntoyo, villaggio di cui è originario. Nell’attacco della scorsa settimana, è stata incendiata la casa della sua famiglia e, con altre persone, ora Justin — laico cattolico, volontario della diocesi di Butembo-Beni — sta ospitando 23 sfollati dell’ultima ondata di violenza, tra cui anche i propri parenti. In una conversazione con i media vaticani, racconta quanto accaduto a Ntoyo. "Erano giorni di lutto, quando nel villaggio tradizionalmente si raduna tanta gente per accompagnare e sostenere la famiglia che ha perso una persona cara. Verso sera, sono arrivati i 'terroristi', che hanno cominciato a uccidere le persone, armati di fucili e martelli". La violenza dell’Adf, spiega, va avanti "da tantissimi anni nel Nord Kivu e nella parte orientale del Paese. Si dice — riferisce — che i miliziani vengano a cercare i minerali, soprattutto oro e coltan, ma anche che agiscano in collaborazione con l’M23, però non si sa se sia effettivamente vero o non. Secondo altre fonti — aggiunge — questi gruppi armati verrebbero a cercare le terre per la popolazione rwandese", nell’ottica di "occupare la zona", oppure per fare "di tutta la gente dei musulmani".
Il raid del gruppo armato
Domenica scorsa, va avanti Justin, a Butembo "abbiamo tenuto una riunione con tutti gli sfollati. Le testimonianze sono state terribili. È un miracolo che siano ancora vivi: ci sono delle persone che sono uscite dalle loro case quando erano già a fuoco! Hanno raccontato che il gruppo dei terroristi era veramente grande, circa 70 persone, oltre agli uomini anche donne e bambini, vestiti come militari. E conoscevano i nomi di qualche persona del villaggio: questo fa pensare che avessero precedentemente tenuto d’occhio il villaggio, per guardare, capire la posizione, senza che la popolazione se ne rendesse conto".
Attacchi non solo a Ntoyo
Justin ricorda che anche nei villaggi vicini negli ultimi giorni si sono verificati attacchi simili, nel quadro di una violenza generalizzata che a luglio aveva colpito un gruppo di fedeli riuniti per il culto e giovani in adorazione eucaristica nella chiesa cattolica del villaggio di Komanda, nell’Ituri. A quella comunità Papa Leone XIV aveva espresso la propria vicinanza e il profondo dolore, pregando affinché il sangue di quei "martiri" potesse essere "seme di pace, riconciliazione, fraternità e amore per tutto il popolo congolese".
La gente, riflette Justin, "ha bisogno proprio della pace, perché solo così potremo studiare, curarci, pensare allo sviluppo. Ma senza di essa non si può andare nei campi a coltivare, attualmente ci sono tanti bambini che non possono andare a scuola e molti ospedali e centri di salute sono stati distrutti. Ecco, ai nostri governanti e alla comunità internazionale diciamo che abbiamo solo bisogno di qualcuno che ci dica: 'Io porto la pace e la gente non sarà più uccisa' ".
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