Usa, le radici della violenza politica. Voci e testimonianze
a cura di Guglielmo Gallone - Città del Vaticano
Quali sono le radici culturali e sociali della violenza politica negli Stati Uniti? Dove nasce la paura dell’altro, l’insofferenza verso colui che la pensa in modo diverso? E come la polarizzazione rischia di trasformare l’identità statunitense e la possibilità di convivere democraticamente? Le immagini che arrivano da un’America violenta, in forte crisi di identità, non possono che spaventare e indurre a interrogarsi su cosa sta accadendo. L’omicidio dell’attivista politico conservatore, Charlie Kirk, è solo l’ultimo di una lunga serie di atti politici aggressivi, perpetrati contro esponenti del pensiero repubblicano e di quello democratico, capaci di far emergere il cuore della crisi americana: la grandissima difficoltà ad ascoltarsi e, di riflesso, l’incapacità di accettare la diversità di pensiero.
Atti estremi come quello avvenuto mercoledì — peraltro in un luogo simbolo di questo momento di disagio, come le università, in cui è sempre più difficile dialogare — passano anche e soprattutto per il fattore umano: solitudine, mancanza di fiducia, senso di abbandono, incapacità di trovare spazi comunitari in cui conoscersi e confrontarsi. Per comprendere dove affondano le radici di una crisi che è politica, sociale e culturale insieme, ci siamo rivolti a conoscitori degli Stati Uniti d’America e giovani cittadini americani.
L'analisi di Seth Cropsey Fondatore e presidente dello Yorktown Institute, già ufficiale di Marina e vicesottosegretario della U.S. Navy
L’omicidio politico di Charlie Kirk ha messo in evidenza le divisioni che caratterizzano oggi la società americana e ha riportato alla luce una delle principali preoccupazioni che hanno tormentato gli Stati Uniti sin dalla loro fondazione, quasi 250 anni fa. La prima frase della Costituzione statunitense dichiara il suo obiettivo: «Formare un’unione più perfetta». «Formare un’unione più perfetta» è stata la sfida costante della politica americana, dal dibattito della Convenzione costituzionale del 1787 su come contare gli schiavi ai fini della rappresentanza al Congresso, fino alla Guerra Civile. Altre profonde divisioni nella politica americana includono il dibattito sull’isolazionismo che precedette l’affondamento del Lusitania prima della Prima guerra mondiale e un dibattito simile che precedette l’attacco a Pearl Harbor, che portò gli Stati Uniti a entrare nella Seconda guerra mondiale. Successivamente, il trattamento riservato agli afroamericani ha diviso gli Stati del Nord e del Sud fino all’approvazione, da parte del Congresso, del Civil Rights Act del 1964.
L’omicidio di Kirk è l’ultimo di una serie di omicidi politici, la cui ondata più recente è iniziata con il tentato omicidio di Gabby Giffords nel 2011 e di Steve Scalise nel 2017, entrambi membri del Congresso. Più recentemente, due membri democratici della legislatura statale del Minnesota sono stati colpiti da arma da fuoco, uno dei quali è morto. Il presidente, Donald Trump, è stato bersaglio di due tentativi di assassinio lo scorso anno. Nell’aprile 2025, la casa del governatore della Pennsylvania, Joshua David Shapiro, è stata incendiata. Sempre quest’anno, un giovane uomo, apparentemente spinto dal rancore personale, è stato accusato di aver ucciso un dirigente di una compagnia di assicurazioni sanitarie. Grazie a internet, che funge da valvola di sfogo per una varietà apparentemente infinita di patologie sociali, questo giovane è in seguito diventato una sorta di eroe popolare.
Che cosa sta succedendo in America? La retorica politica è diventata infuocata, riflettendo la crescente divisione tra gli estremi dei due principali partiti politici. Internet alimenta questa divisione, così come fanno i discorsi dei politici. Il turpiloquio è entrato nel dibattito pubblico, mentre una parte accusa l’altra di fascismo e viene a sua volta accusata di comunismo. Le università d’élite americane, dopo decenni di progressivo declino verso l’intolleranza delle opinioni che si discostano da quelle dei docenti e verso la tolleranza dell’antisemitismo, rappresentano un elemento importante di questo mix tossico che incoraggia la demonizzazione degli avversari politici e promuove un clima che nutre la violenza politica.
Il risultato è che le norme sociali e la coesione che, quanto meno, mantenevano vivo un discorso civile si sono logorate e potrebbero aver perso la capacità di modellare i comportamenti. Di conseguenza, un leader politico che cercava di promuovere il cambiamento attraverso il dibattito e l’argomentazione — le forme legittime di persuasione — non c’è più. La domanda per la società americana è se sia possibile tornare indietro dall’orlo di questo abisso: la speranza di «perfezionare la nostra unione» è ormai svanita?
Le voci di David Lapp, cofondatore di Braver Angels, e Amber Lapp, ricercatrice presso l’Institute for Family Studies e collaboratrice del think tank American Compass
Nel 2010, quando abbiamo iniziato a intervistare giovani adulti della classe lavoratrice in una piccola città dell’Ohio, ci aspettavamo di conoscere le loro famiglie, i loro lavori e le loro convinzioni. La cosa che ci ha sorpresi, invece, è stato quanto continuassero a parlare di fiducia. Durante lunghe conversazioni nei caffè o attorno a un falò, dicevano cose come: «Ho problemi di fiducia» e «Non mi fido di nessuno». Sinceramente, la fiducia non era qualcosa a cui avevamo pensato molto. Cresciuti in ambienti ad alta fiducia — Amber in una chiesa evangelica molto unita e David nella comunità Amish — la davamo per scontata. Ma quei giovani adulti ci stavano raccontando che vedevano il mondo come un luogo in cui non si poteva contare sugli altri. E che questo rendeva dolorosamente difficile svolgere attività come mantenere un lavoro o sposarsi. Le origini di questa sfiducia? Molti le facevano risalire alla frammentazione familiare. Successivamente, la sfiducia veniva aggravata da luoghi di lavoro in cui si sentivano sfruttati e facilmente sostituibili.
La violenza politica prolifera in ambienti a bassa fiducia. La fiducia è la valuta delle società pacifiche: è ciò che le persone scambiano tra loro. Porta benessere e sicurezza. Quando esiste un solido gruppo intermedio di persone fiduciose e affidabili, la polarizzazione e la radicalizzazione restano ai margini. Ma quando le persone sono meno connesse tra loro, le voci più distruttive finiscono per sembrare rappresentative. E, spinti dalla paura e dall’autodifesa, coloro che stanno al centro rischiano di indurire i propri cuori e di spostarsi verso gli estremi. Nell’ultimo mese, abbiamo organizzato nella nostra città un evento che riunirà cittadini comuni, divisi equamente tra sinistra e destra, per avere una discussione aperta sull’immigrazione. L’obiettivo non è cambiare le opinioni degli altri, ma scoprire quale terreno comune possa già esistere. Dopo l’uccisione di Charlie Kirk, una persona ci ha contattati per comunicarci la sua paura a partecipare al nostro evento, ma in seguito ha deciso che sarebbe venuta comunque. Un’altra, che in precedenza non era interessata, si è iscritta, anche per rendere onore a Kirk, che credeva nel parlare con chi la pensa diversamente. Ciò che prima sembrava un dialogo quotidiano, ora appare sotto una luce nuova, urgente, persino eroica. Quello che prima sembrava troppo “kumbaya” (poco pratico e molto idealistico) ora appare fondamentale ed essenziale. Più e più volte siamo rimasti stupiti da come semplici, e spesso sorprendenti, incontri personali riescano a invertire il processo di sfiducia. Se la crisi è personale, ha senso che anche la soluzione sia personale.
La testimonianza di Grace, 23 anni, studentessa di legge, nel Tennessee
La cosa che mi ha stupito di più dell’omicidio di Charlie Kirk è il luogo in cui è avvenuto: l’università. Sono cresciuta a Knoxville, in Tennessee, in una famiglia dove si parlava di tutto: politica, fede, sport, persino di chi cucinava il miglior barbecue del quartiere. Si poteva litigare, ma alla fine c’era sempre un abbraccio o una partita di football a unire tutti. Negli ultimi anni, specie quando sono arrivata all’università, ho capito che qualcosa sta cambiando: molti giovani hanno paura di dire quello che pensano. È come se non ci fosse più quello spazio sicuro dove puoi discutere senza temere di perdere amici o essere giudicato. Ci dividiamo su tutto: dalla Palestina a Israele, da Trump a Harris, dal baseball al basket. Così si resta in silenzio, si trattengono emozioni, rabbia. E chi è più fragile, più solo, a volte trova nella violenza l’unico modo per farsi sentire. Questo mi spaventa, perché so che potrebbe succedere ancora. Perché in America siamo tutti molto più fragili di prima, eppure siamo tutti più incapaci di dirlo.
La testimonianza di Tyler, 24 anni, studente di comunicazione a New York
L’omicidio di Charlie Kirk non mi ha sorpreso tanto per chi era la vittima, ma per quanto appaia come un atto inevitabile. Nel mio Paese la politica viene ormai intesa come dimostrazione di forza: chi urla di più, chi annienta il nemico, chi spara, vince. Anche per noi studenti sta diventando sempre più scomodo parlare apertamente in aula. Tempo fa, quando la professoressa ha chiesto perché molti di noi restano in silenzio durante i dibattiti o le lezioni, le risposte sono state sempre le stesse: paura di dire qualcosa di sbagliato, ansia sociale, il rischio di offendere qualcuno è costantemente presente, anche se il tema non è politico. E così resti nel mutismo, almeno finché non sei sicuro al cento per cento. A volte penso: sto esagerando? Forse è solo ansia giovanile. Ma la polarizzazione è ovunque, nei post sui social, nei titoli delle news, nei commenti che fanno a gara a chi è più indignato. E senti questo muro invisibile tra “noi” e “loro” che cresce ogni giorno. C’è infatti un’altra cosa che mi pesa: temo che se dico qualcosa di impopolare possa finire su TikTok o Instagram, girare, essere ridicolizzato. È come se ogni opinione diventasse un rischio. Preferisco restare in silenzio piuttosto che espormi. E intanto sento che la rabbia si accumula, che molti si sentono soli, esclusi e non sappiamo confrontarci. La cosa che accomuna l’omicidio di Charlie Kirk a tante altre stragi è l’età media del killer: sono tutti giovanissimi. E questo non promette niente di buono.
Le parole di John Wood, Jr., National ambassador del movimento Braver Angels
Non combattiamo e non ci uccidiamo semplicemente perché siamo estranei o perché non ci piacciamo. La violenza politica non nasce solo su questa base. La Guerra Civile americana era l’esito di un processo storico in cui il Nord e il Sud erano cresciuti sempre più distanti culturalmente, sviluppando antipatie regionali e di classe. I meridionali erano visti come pigri, quasi incivili; i settentrionali come sporchi contadini industriali e profittatori, un popolo senza radici, privo della mentalità civile dei gentiluomini agrari. Ma queste differenze culturali furono aggravate dai conflitti di interesse legati alla politica: un governo federale sempre più forte e un’interpretazione costituzionale in continua espansione che vedeva l’agricoltura e gli stati del Sud perdere peso economico e influenza politica, cui si aggiungeva, in modo più specifico, la questione della schiavitù.
Quando Abraham Lincoln si candidò alla presidenza, insistette con fermezza sul fatto che, sebbene la schiavitù fosse un male, coloro che la sostenevano erano, in generale, brave persone. Il conflitto di interessi tra Nord e Sud in politica era inevitabile, ma Lincoln sperava di poter ristabilire una connessione sociale e una familiarità culturale tra le due parti, osservando in un discorso elettorale di avere avuto la fortuna di sposare una donna del Sud. Questo tentativo fallì: il processo di polarizzazione era ormai troppo avanzato e la schiavitù un problema troppo radicato. Tuttavia, Lincoln aveva ragione nel ritenere che solo un forte senso di fratellanza tra americani avrebbe potuto evitare la guerra e la stessa violenza politica che un giorno gli avrebbe tolto la vita. Fu proprio riconoscendo questa realtà che Martin Luther King Jr. guidò un movimento nonviolento per riaffermare la comunione sociale e spirituale americana, anche nel mezzo di un movimento per i diritti civili in cui gli interessi materiali e politici del Sud bianco e degli afroamericani (e dei liberali in altre aree del Paese) erano chiaramente in contrasto. Anche King cadde vittima della violenza politica ma, come dimostra la sua eredità e il successo dell’integrazione, la sua filosofia di riconciliazione era orientata nella direzione giusta. «Non cerchiamo di sconfiggere o umiliare l’avversario, ma di conquistare la sua amicizia e comprensione», insegnava King. Questo generò un cambiamento culturale che è durato nel tempo. Non possiamo evitare i conflitti di interesse. Ma possiamo rafforzare i nostri legami sociali per renderli resilienti a questi conflitti, nella speranza di trascendere la violenza.
L'analisi di Federico Petroni, rivista italiana di geopolitica «Limes», esperto di Stati Uniti
La violenza politica è una costante della storia statunitense. Ma ogni ricorrenza ha le sue caratteristiche. Oggi, la violenza deriva da una vera e propria crisi di convivenza. È un aspetto di un morbo antisociale che attanaglia l’America. Rispetto al passato, negli ultimi trent’anni gli americani sono diventati più depressi, più soli, più affetti da dipendenze, fanno meno famiglie, fanno meno figli che spesso tirano su da soli. Si ritrovano meno sul luogo di lavoro, vanno meno in chiesa, hanno meno amici, non si associano più nelle organizzazioni di categoria, non frequentano più le istituzioni civiche. Tendono ad autosegregarsi: parlano solo con chi condivide le loro opinioni, vivono in quartieri separati a seconda del livello di istruzione, che determina l’orientamento politico. Fra democratici e repubblicani non ci si sposa più. C’è una tendenza nichilista: non si crede più in nulla, a partire dalle istituzioni e dal sogno americano, cioè scheletro e anima del paese. Così la politica incoraggia l’odio. La tragedia degli Stati Uniti d’oggi è che non vedono il nemico fuori, ma dentro. Non la Cina o la Russia, bensì chi vota l’altro partito. L’America va salvata da sé stessa, dal suo lato oscuro. Ovviamente ogni schieramento accusa l’altro di incarnare quell’oscurità. La posta in gioco è esistenziale: se vincono i tuoi avversari, non ci sarà più un Paese o la democrazia. Se perdi, estingueranno il tuo stile di vita, autentica religione nazionale. Autorevoli sondaggi riferiscono percezioni allarmanti in minoranze non indifferenti: chi vota l’altro partito è subumano e animale, merita la morte. I rivali? Spietati fascisti o pazzi comunisti. Vogliono cancellare i diritti oppure la differenza tra un uomo e una donna. Percezioni diffuse anche in Europa. Ma in America producono la massima intensità. Priva di coesione sociale, è ovvio che Washington perda il controllo delle guerre all’estero o che ripieghi disordinatamente mollando le zavorre dell’impero per provare a salvare la nazione.
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