Maria di fronte alla croce sulle note di Pergolesi e Scelsi
Marco Di Battista - Città del Vaticano
Un lungo palcoscenico, quasi una passerella, accoglie il pubblico, tagliando la lunga navata in due parti. Il luogo è la basilica di Santa Maria in Ara Coeli in Roma, non nuova alla trasformazione in teatro sacro. Ci si siede con un po’ di curiosità, prima di essere immersi nella penombra. E poi il silenzio. E, dopo ancora, passano sul palco dei soldati, con tanto di anfibi, elmetto e mimetica. Sono armati delle loro armi: gli strumenti musicali. Alcuni si fermano nel silenzio. Una grande emozione ci avvolge, soprattutto in questo momento storico. Sono i professori dell’orchestra (anche il direttore Michele Mariotti veste l’uniforme militare, pure sul podio), che sfilano e prendono posto nell’abside. Inizia la musica: Quattro pezzi per orchestra (ciascuno su una nota sola) di Giacinto Scelsi. L’indagine del compositore all’interno del suono è il preludio a un viaggio nel dolore di una madre, profondo, universale. In questa sorta di lavacro prima del rito, la ricerca è anche e soprattutto dentro noi stessi.
Le prime battute dello Stabat Mater di Giovanni Battista Pergolesi sono assai famose, ma commuovono anche dopo il millesimo ascolto. Come ha scritto Romeo Castellucci, regista di questa azione teatrale, questa musica trafigge, come le spade nel corpo di Maria. La drammaturgia, pensata con Christian Longchamp, propone le due soliste, ieri sera le magnifiche Emőke Baráth e Sara Mingardo, come immagine l’una dell’altra. Due sorelle? Il sacro e l’umano, le due nature del Figlio morto? La poesia (la troviamo scritta su un mantello) lascia spazio a ciascuno di immaginare la lettura che preferisce. Ogni strofa della sequenza è costruita scenicamente con un crescendo di tensione in cui si passa, seguendo il testo, dall’osservazione, alla compassione, all’immedesimazione e, infine, alla preghiera: Flammis ne urar succensus, perché io non bruci tra le fiamme. Il coro di bambini invade il palcoscenico-passerella. Ciascuno riceve in grembo una statua, copia di un Cristo morente da quadri famosi. Sono solo dei grossi frammenti, ma pesano sui corpicini dei fanciulli. Rappresentazione della Pietà. Al centro, un solo bambino ha in grembo non una statua ma un suo coetaneo, avvolto da un lenzuolo bianco. Sarà l’ultimo a raggiungere gli altri per cantare Ave Maria e Pater Noster di Scelsi. Verrà poi il soprano, che nel frattempo ha mutato la propria veste in bianco, a toccare il drappo e a cantare l’Alleluja, ultimo dei Three Latin Prayers di Scelsi.
Un ultimo coup de théâtre chiude la rappresentazione. Viene issato per un momento l’asse centrale di un crocifisso, in cui qualcuno ha visto il simbolo esoterico della resurrezione, con avvinghiato un bambino. Simbolo di speranza, di fede, o semplice accettazione del proprio destino. Con le porte della chiesa ormai spalancate, perché è nel mondo la nostra via.
Insomma non abbiamo assistito a un concerto o a uno spettacolo, piuttosto abbiamo fatto un’esperienza. Dei sensi e dello spirito. Naturalmente se tutto ha funzionato perfettamente si deve alla regia di Romeo Castellucci, alla drammaturgia di Christian Longchamp, alle bravissime Baráth e Mingardo, all’Orchestra e al Coro di voci bianche del Teatro dell’Opera di Roma (diretto da Alberto De Sanctis) diretti da Michele Mariotti, tutti bravissimi. Così come puntuali sono stati gli interventi dentro e attorno al palcoscenico
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