László Krasznahorkai, il Nobel che trasforma il caos in speranza
Fabio Colagrande - Città del Vaticano
Con la motivazione "per un’opera visionaria e avvincente che, nel mezzo del terrore apocalittico, riafferma il potere dell’arte", l’Accademia di Svezia ha assegnato il Nobel per la Letteratura a László Krasznahorkai, 71 anni. La sua voce, erede di Kafka e di Bernhard, ha saputo fondere il pessimismo dell’Europa centrale con l’ascesi orientale, dando vita a romanzi che interrogano il destino dell’uomo, la fine del mondo e la possibilità del bene.
Biografia e formazione
Nato nel 1954 a Gyula, nel sud-est dell’Ungheria, Krasznahorkai ha studiato diritto e letteratura all’Università di Szeged e a Budapest. Considerato uno degli scrittori più importanti e riconosciuti della letteratura contemporanea europea, dopo gli studi si è dedicato alla scrittura con un approccio intellettualmente rigoroso e fortemente impegnato. Dopo gli esordi negli anni Ottanta, ha viaggiato in Asia — in particolare in Giappone e in Cina — esperienze che hanno impresso alla sua scrittura una dimensione contemplativa e cosmologica. Legato al regista Béla Tarr, ha firmato con lui capolavori del cinema europeo come Sátántangó e The Turin Horse, dove il bianco e nero diventa metafora di una fede messa alla prova.
Poetica: la parola come atto di resistenza
La prosa di Krasznahorkai si riconosce subito: frasi interminabili, ritmo ipnotico, tono profetico. Nei suoi libri — veri fiumi di coscienza — il linguaggio cerca di contenere un mondo in rovina. Le sue opere sono spesso caratterizzate da trame intricate, atmosfere malinconiche e personaggi ai margini della società, immersi in situazioni di profonda crisi spirituale ed esistenziale. Attraverso i suoi personaggi, che oscillano tra il nichilismo e una ricerca quasi mistica, l'autore ci conduce in una meditazione sul senso del male. La realtà che descrive è apocalittica, ma non priva di speranza: nel caos emergono gesti minimi, compassione, un bisogno di redenzione che ha tratti profondamente spirituali. È una letteratura dell’attesa, del dubbio, della responsabilità morale.
Krasznahorkai non scrive romanzi religiosi, ma i suoi personaggi vivono sempre davanti a un mistero. Nel declino e nella disperazione, il lettore percepisce la tensione verso un senso altro: una ricerca del sacro che non trova dogmi, ma domande. L’universo dei suoi romanzi è un teatro spirituale dove il male, la colpa, la pietà e la salvezza si confrontano. Il suo è, in fondo, un umanesimo tragico che invita a non cedere al cinismo, a credere che la parola possa ancora salvare.
Opere e riconoscimenti
Autore di numerosi romanzi e raccolte di racconti tradotti in varie lingue, tra i libri più celebri di Krasznahorkai ci sono: Sátántangó (1985), la parabola di un villaggio in decadenza; La malinconia della resistenza (1989), allegoria del collasso morale dell’Europa e Guerra e guerra (1999), meditazione sull’eternità della scrittura. Nel 2015 ha vinto il Man Booker International Prize per l’insieme della sua opera e sei anni dopo il Premio di Stato austriaco per la letteratura europea. Con il Nobel, la sua voce riceve oggi il riconoscimento più alto: un autore che, attraverso l’apocalisse, ci ricorda che l’arte resta un atto di fede nel futuro.
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