L'ultimo saluto di teatro e cinema a Paolo Bonacelli, attore completo
Eugenio Murrali - Città del Vaticano
Paolo Bonacelli aveva la virtù di un’umanità completa sulla scena e nella vita. Completa cioè piena, contraddittoria, tenera, a volte ruvida. Il cinema lo aveva reso popolare, il suo carattere diretto, capace di farsi prossimo a tutti, lo rendeva vicino, raggiungibile, anche se se la luce dei suoi occhi verdi poteva nascondere pensieri inafferabili. Lo scorso 8 ottobre, a 88 anni, è terminata a Roma, città in cui viveva, la sua parabola terrena, resta viva quella artistica. Sua moglie Cecilia Zingaro, attrice bravissima con cui fino all'ultimo ha condiviso l'esistenza e la scena, lo descrive come "un uomo irripetibile, curioso del mondo e delle persone che incontrava nel quotidiano". Perché Bonacelli, schivo, riservato, amava il contatto autentico con la gente, voleva portare tutti a teatro, scambiava facilmente il suo numero di cellulare, uno di quei telefonini semplicissimi, buoni soprattutto per parlare o mandare un messaggino stringato ed efficace. Sempre in movimento, imperversava per le strade della città su una piccola auto, con cui andava ovunque per appagare quel desiderio di vedere, conoscere, dialogare.
I personaggi, dentro e fuori
Il suo sguardo di attore era magnifico e, con altissima intelligenza scenica, teneva sempre presente l’autore, la temperie della Storia, la profondità del personaggio e la sua rete relazionale. Era riconoscibile, perché unico, e credibile, perché molteplice, nei tanti ruoli ai quali ha prestato la voce robusta, che sapeva farsi sottile, la sua espressività ultraverbale, fatta di un modo tutto personale di portare allo spettatore la parola, o il concetto sotteso, con un corpo che era un monumento gigante e leggero, ironico, e una mimica geniale, di comicità a un tempo fisica e metafisica.
Un attore popolare e colto
Come bene ha scritto il suo amico Giuliano Ferrara, Bonacelli "era un attore colto e non un intellettuale di palcoscenico". Eccezionale lettore, acuto conversatore, amava dialogare, amava la convivialità, ma, nei rapporti più stretti, aveva una predilezione spiccata, quasi aristocratica, per le persone sapienti e umili come lui. Non a caso era stato amico di Pier Paolo Pasolini, con cui avrebbe di certo collaborato a lungo dopo l’interpretazione in Salò o le 120 giornate di Sodoma, se la morte violenta non avesse troncato la vita del regista e poeta. Per il nobel Harold Pinter, che lo applaudiva, era stato protagonista in Terra di nessuno e Ritorno a casa diretto da Guido De Monticelli. Con l'amico Pinter si incontrava a Londra, per passeggiare, pensare, per commentare la letteratura e il mondo. E nella quotidianità di Bonacelli non mancavano altri grandi intellettuali, in particolare l’amico di sempre, lo scrittore Franco Cordelli e il giurista Franco Gallo, suo compagno di scuola.
Il teatrino degli scrittori
La sua complessità di attore lo ha portato a calcare i grandi palcoscenici. Dopo l’Accademia d’arte drammatica ha presto lavorato, nel 1962, con Vittorio Gassman in Questa sera si recita a soggetto di Pirandello. Ma un’esperienza di cui parlava sempre volentieri era anche quella avanguardistica delle cooperative, delle cantine romane. Aveva dato il suo contributo, infatti, insieme alla collega e compagna Carlotta Barilli, alla nascita della Compagnia del Porcospino, nel teatro di via Belsiana, poi soprannominato il teatrino degli scrittori. Descriveva quegli anni senza idealizzazioni, come momento vitale, partecipativo. L’avventura si era conclusa presto, perché non era economicamente sostenibile e perché altri palcoscenici chiamavano. Ma l’occasione era stata buona per stringere legami con Alberto Moravia, Dacia Maraini, Enzo Siciliano e altri intellettuali e attori che sarebbero restati suoi amici. Curioso, dotto, intreprendente aveva fatto conoscere al pubblico italiano testi come Commedia ripugnante di una madre del polacco Stanislaw J. Witkiewicz, tradotta da Maraini.
I grandi palcoscenici
Attento e generoso con i giovani di valore, non si negava alle piccole produzioni, ma i grandi palcoscenici erano lo spazio più appropriato per la sua energia scenica portentosa. Nel 1963, allo Stabile di Genova, era stato diretto da Luigi Squarzina nel dramma Il diavolo e il buon Dio di Jean-Paul Sartre. Aveva lavorato per lo stabile di Sardegna, per i grandi teatri romani. E l'Argentina lo accoglierà il 12 ottobre per un ultimo saluto proprio nella sala Squarzina. La lista dei successi è lunga, certamente a metà degli anni Ottanta la sua interpretazione di Argan nel Malato immaginario di Molière, diretto da Mario Missiroli per lo Stabile di Torino, ne aveva fatto anche uno dei maggiori interpreti molièriani.
Quando veniva giù il teatro
Proprio Il malato immaginario di Molière è tornato, questa volta diretto da Marco Bernardi e ancora visibile sulla rete, in una delle collaborazioni più durature e importanti, quella con lo Stabile di Bolzano, che tra il 2002 e il 2013 lo ha visto protagonista in molte produzioni: La brigata dei cacciatori di Bernhard, La pulce nell’orecchio di Feydeau, Enrico IV di Shakespeare, Danza di morte di Strindberg, La brocca rotta di Kleist. "Ci sono attori straordinari in prova e deludenti in recita", racconta Marco Bernardi: "Bonacelli no, in prova, semplicemente provava, raramente dava una soddisfazione ai suoi registi - continua Bernardi -, in recita giganteggiava. Moderno e antico, intellettuale e popolare, disperato e farsesco, con quel corpo enorme ma scattante se necessario, con quella voce a volte tuonante, altre volte in falsetto, altre ancora nel suo mitico strascicato timbro uniforme al limite della comprensione". E ricorda come con strepitose gag, in parte improvvisate, in parte preparate a lungo e quasi di nascosto, faceva venire giù il teatro. Con il pubblico aveva infatti un'intesa speciale.
Un percorso internazionale
Le interpretazioni nei film di Benigni, il Leonardo di Non ci resta che piangere e lo “zio” avvocato in Johnny Stecchino lo avevano reso notissimo al grande pubblico. Bonacelli era affezionato a quei ruoli, anche se a volte confessava, bonario e scherzoso come era, che la famosa battuta sul traffico di Palermo era stata una condanna. Perché certo la sua forza scenica sapeva andare in moltissime altre direzioni, una presenza che aveva richiamato l’attenzione di registi italiani e stranieri. Sul set aveva lavorato con tutti, divertito e mai spaventato dall’alto e dal basso quali categorie dell’essere e della scena. In Italia, tra i molti, Liliana Cavani, Mauro Bolognini, Francesco Rosi, Michelangelo Antonioni, Lina Wertmüller, Pupi Avati. Il suo perfido Rifki in Fuga di mezzanotte di Alan Parker, nel 1978, ha lasciato una traccia decisa nella storia del cinema, ma incisive sono state le partecipazioni anche a opere da grande pubblico come Mission impossible III di J. J. Abrams.
Una progettualità instancabile
Impressionava l’energia di Paolo Bonacelli, la sua capacità, per di più in questi anni in cui il corpo non gli era sempre alleato, di guardare al futuro con progettualità viva, forse a tratti disincantata ma mai disfattista. Da poco era stato presentato a Venezia il film di Julian Schnabel In the land of Dante, cui aveva partecipato, e stava per riprendere un adattamento del Re Lear che da anni portava in scena con il regista Marcello Cava. Raggiunto dall'età, ma non dalla vecchiaia, il suo spirito se ne è andato giovane a riprendere molti discorsi, a liberare altre risate e altri pensieri, ma anche quelli che lascia qui, la morte non sa interromperli.
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