Sudan, nuovi raid sul Darfur. Colpite una moschea e un ospedale
Guglielmo Gallone - Città del Vaticano
Proprio mentre tutti tiravano un sospiro di sollievo per il primo passo compiuto verso la tregua in Medio Oriente tra Hamas e Israele, di fronte al silenzio e all’indifferenza del mondo le forze paramilitari sudanesi bombardavano una moschea e il reparto di maternità dell’ospedale di El Fasher, capitale del Darfur settentrionale, da anni sotto assedio. Il bilancio è tragico: una dozzina di civili morti, tra cui donne e bambini, e altri 17 feriti.
Episodi tutt'altro che isolati
Ma nelle ore successive la situazione è precipitata ulteriormente. Un attacco con drone ha colpito il rifugio per sfollati di Dar al-Arqam, all’interno del campus universitario della città, uccidendo oltre 60 persone, secondo quanto riferiscono i comitati di resistenza locali. Le vittime si erano rifugiate nei sotterranei per sfuggire ai bombardamenti. «È un massacro», denunciano gli attivisti, accusando la comunità internazionale di mantenere un silenzio complice di fronte all’assedio che da 18 mesi isola El Fasher dal resto del Paese. L’attacco, uno dei più gravi dall’inizio della guerra tra i ribelli delle Forze di supporto rapido (RSF) e l’esercito del generale Abdel Fattah al-Burhan, segna una nuova, ennesima escalation della più grave crisi umanitaria al mondo. Secondo l’Alto commissario Onu per i diritti umani, Volker Türk, in soli tre giorni, tra il 5 e l’8 ottobre, almeno 53 civili sono stati uccisi e più di 60 feriti. I raid, condotti con droni e artiglieria pesante dai ribelli delle Forze di supporto rapido (Rsf), hanno centrato non solo la moschea e l’ospedale saudita per donne e maternità – l’ultima struttura sanitaria ancora funzionante nel Darfur settentrionale –, ma anche i quartieri di Abu Shouk e Daraja Oula e l'interno del campo profughi di El Fasher, dove si erano rifugiati migliaia di sfollati. «Sono sconvolto dall’infinito e indiscriminato disprezzo delle Rsf per la vita dei civili», ha dichiarato Türk, denunciando un pattern ormai costante: attacchi deliberati contro ospedali, rifugi e luoghi di culto, in violazione del diritto internazionale umanitario.
La questione dei crimini di guerra
A confermare la gravità della situazione è anche la rete dei medici sudanesi, che parla di «crimine di guerra a tutti gli effetti», proprio nella settimana in cui la Corte penale internazionale ha riconosciuto Ali Kushayb, capo miliziano sudanese, colpevole di crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi in Darfur nel 2005. Vent’anni dopo la situazione non è cambiata, anzi si continua a parlare degli stessi capi d’accusa. Un’inchiesta di France 24 ha rivelato che l’esercito sudanese avrebbe utilizzato gas cloro in due attacchi aerei nel settembre 2024, a nord di Khartoum, contro le Rsf. Washington aveva già imposto sanzioni al governo sudanese per l’uso di armi chimiche, pur senza fornire dettagli. Khartoum ha negato ogni accusa e ha parlato di «ricatto politico», ma France 24 ha ribattuto dicendo di aver verificato i video e le testimonianze che mostrano le nuvole giallastre tipiche del cloro. Che dire poi dell’ospedale di El Fasher, già più volte colpito, che dispone ormai di scarse forniture e di un personale ridotto al minimo: riesce a garantire solo parti d’emergenza e cure di pronto soccorso per le vittime dei bombardamenti.
L'assedio di El Fasher
Secondo il Sudan Doctors’ Network, l’obiettivo delle milizie paramilitari è proprio questo: prendere di mira deliberatamente le aree civili nel tentativo di svuotare la città, assediata da mesi e privata di aiuti, generi di prima necessità e medicinali. In effetti, Luciano Pollichieni, esperto di geopolitica africana, conferma ai media vaticani che «il conflitto in Sudan si trova in una fase di stallo e proprio in questo momento la guerra diventa più cruenta, con un considerevole aumento delle vittime civili. Le Rsf controllano la parte occidentale del Paese, quindi nord e sud del Darfur, ma soprattutto controllano il confine con la Libia, un'area strategica fondamentale per noi occidentali, specie sul lato migratorio». Tuttavia, El Fasher resta oggi l’ultimo grande centro non ancora caduto nelle mani delle Rsf, eredi dei famigerati Janjaweed. Ecco perché è cinto d’assedio. «L'esercito regolare e i ribelli si contendono il controllo del Paese» riprende Pollichieni, «ma soprattutto si contendono la legittimità del potere agli occhi degli attori esterni. Sebbene la comunità internazionale riconosca l'esercito regolare, in realtà sono stati creati due governi paralleli che, proprio per ottenere il pieno potere, non hanno alcuna intenzione di dividersi il Paese». Ed è così che, conclude l'analista, «30 milioni di persone hanno urgente bisogno di assistenza umanitaria, 24 milioni di sudanesi versano in condizioni di insicurezza alimentare acuta e più di dieci milioni di sfollati interni non sanno dove andare, né cosa fare della loro vita».
Una nota di speranza
Eccoli i numeri della più grave crisi umanitaria al mondo, che non ci stanchiamo di ripetere perché lì, in Sudan, le bombe non hanno mai smesso di cadere, di cancellare intere città dalle mappe. E così sta morendo il Paese arabo-africano, con i suoi ospedali, le moschee, le chiese, le scuole, i mercati: non solo nella guerra e nella fame, ma nell’indifferenza del mondo. Eppure, c’è una nota di speranza dentro questo orribile racconto: nel 2001 padre Renato Kizito Sesana, missionario comboniano, insieme all’associazione Koinonia, ha aperto due scuole primarie e un istituto di formazione per i maestri tra i Monti Nuba, un'area a sud del Paese in cui si incrociano oltre un milione di rifugiati sudanesi e sud-sudanesi. Almeno una volta all’anno, padre Kizito torna a visitare queste strutture. Ed è proprio con la testimonianza di speranza raccontata ai media vaticani dal missionario comboniano, arrivato in Africa nel 1977, che vogliamo concludere questo racconto: «Tra poco riprenderemo il progetto avviato tra i Monti Nuba. Il senso della nostra presenza lì è riassunto da quanto mi disse un anziano nuba, molti anni fa: "Se voi venite, anche senza fare nulla, noi ci sentiamo protetti. Perché per noi la Chiesa è come un grande albero che fa ombra alle persone. L'albero apparentemente non fa nulla, ma in realtà protegge. E questo è la Chiesa per noi: una protezione". Ora torniamo con questo spirito, con una presenza semplice, di servizio, di volontariato, non ostentata, anche perché tra i Nuba c'è una forte presenza musulmana. Noi vogliamo riprendere la struttura costruita oltre vent'anni fa, con dei fondi che vengono dalla Chiesa italiana, per rimetterla in ordine, allargarla e garantire un vero servizio di formazione per tutti i giovani sudanesi che vogliono diventare maestri, che vogliono imparare a gestire un po' di economia, che vogliono innescare un sistema al servizio di tutti».
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