In Afghanistan una guerra silenziosa che pesa su libertà e diritti
Giada Aquilino - Città del Vaticano
Una responsabilità «condivisa» affinché l’Afghanistan «non cada nell’oblio». È risuonato forte l’appello dei partecipanti all’incontro “Kabul quattro anni dopo: l’Afghanistan tra libertà e diritti al bivio”, ieri alla Biblioteca del Senato “Giovanni Spadolini” a Roma. Dal 15 agosto 2021, data che segna l’uscita di scena della Nato e delle truppe statunitensi dal Paese e il ritorno al potere dei talebani a Kabul, l’Afghanistan vive di fatto «una guerra silenziosa», ha spiegato Dawood Yousefi, afghano giunto in Italia circa vent’anni fa, oggi mediatore culturale dell’associazione Nawroz.
Quando l’Afghanistan sfiora ormai il collasso economico, il quadro è aggravato dalle severe restrizioni imposte dai talebani alla popolazione, in particolare quella femminile, nonché ai media e alle ong internazionali. Si tratta di una terra percorsa da una crisi «multidimensionale», ha riferito Yousefi. «Oltre 33 milioni di abitanti vivono in povertà, più di 23 milioni necessitano di assistenza umanitaria e circa 9 milioni di afghani si trovano nei Paesi vicini», in un contesto internazionale segnato da «finanziamenti allo sviluppo ridotti».
«Sono passati quattro anni difficili per la popolazione, soprattutto per le donne e le minoranze», come gli hazara, i tagiki, gli uzbeki, ha riflettuto Yousefi in una conversazione con i media vaticani. Un prezzo «altissimo» quello pagato dalle donne, escluse dall’istruzione secondaria e dalle università. «Sono più di 1.400 giorni - ha evidenziato il mediatore culturale - che le scuole sono chiuse alle ragazze. Alcune di loro, con cui riusciamo ad essere in contatto, senza che vengano in qualche modo scoperte dai talebani, raccontano dei diritti negati e violati, rinchiuse come sono all’interno delle case: per uscire hanno bisogno di avere accanato un mahram, una presenza maschile».
Diritti delle donne e libertà di stampa
Ma a sconvolgere la vita degli afghani sono anche i terremoti: l’ultimo, lunedì scorso, ha provocato 27 morti e un migliaio di feriti, quello precedente, a fine agosto, aveva ucciso più di 2.200 persone, con almeno 5.000 feriti. Anche in quel frangente, ha fatto notare la giornalista Luciana Borsatti, esperta di Medio Oriente e analista di dinamiche afghane, è emerso un «apartheid di genere», con una porzione di popolazione «condannata all’oscurantismo: molte donne sono state estratte dalle macerie e soccorse in ritardo e non c’era personale medico femminile» nei team d’emergenza.
Il contesto, peraltro, è quello di «un sistema sanitario con livelli di fragilità mai visti prima» ha spiegato Daniele Giacomini, direttore dell’area emergenza e sviluppo di Emergency, organizzazione che lavora in Afghanistan dal 1999 e mantiene al momento 3 ospedali, a Lashkar-Gal, Kabul e Anabah, portando avanti «un’attività di cura e di formazione, nonché un impegno per i diritti, innanzitutto per le donne e per l’accesso delle pazienti alle strutture», ma anche per quelle «dottoresse che vogliono specializzarsi in ginecologia e anestesia». Ciò che «abbiamo notato in questo periodo - denuncia Giacomini - è un un’involuzione da parte della popolazione maschile, che ha fatto un passo indietro nel supporto a quella femminile: quindi non sono solo più le indicazioni dall’alto a limitare i diritti della popolazione femminile, ma anche le famiglie e la società in tutti i suoi strati».
La situazione nel Paese rimane poi «molto grave anche per la libertà di stampa», ha fatto notare Guido D’Ubaldo, presidente dell’Ordine dei giornalisti del Lazio, sottolineando che l’Afghanistan figura al 156° posto nella classifica stilata da Reporter senza frontiere. Di qui l’urgenza di un maggiore impegno affinché certe «parti di mondo non scompaiano dai riflettori internazionali», ha rimarcato il parlamentare Paolo Ciani nel moderare l’evento, a cui ha fatto eco la deputata Luana Zanella, esortando a uno sforzo «soggettivo oltre che politico per salvare un futuro all’umanità dell’Afghanistan».
I corridoi umanitari
In tale prospettiva si inserisce l’esperienza concreta dei corridoi umanitari, «canali di ingresso legale di persone bisognose di protezione internazionale», ha ricordato il prefetto Rosanna Rabuano, capo del dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del ministero dell’Interno italiano, richiamando il cosiddetto “Protocollo Afghanistan” che dal novembre 2021 ha previsto l’ingresso iniziale di 1.200 persone, a cui se ne sono aggiunte nel tempo altre 700: si tratta, ha dichiarato, di «arrivi che ancora sono in corso, i più recenti a settembre, poi ce ne saranno altri alla fine dell’anno e all’inizio del 2026». «Più dell'80% degli afghani in Europa sono riconosciuti come rifugiati», ha messo in luce Daniela Pompei, responsabile per la Comunità di Sant’Egidio dei servizi a immigrati, rifugiati e rom. «Le persone che arrivano con i corridoi umanitari – in un’esperienza promossa tra gli altri dalla stessa Comunità di Sant’Egidio e dalle autorità italiane assieme a Conferenza episcopale italiana, Caritas italiana, Federazione delle Chiese evangeliche, Tavola Valdese, ndr - provengono da Paesi di transito, perlopiù Iran e Pakistan, che normalmente accolgono da soli quasi 5 milioni di afghani ma che in questo momento stanno effettuando dei rimpatri forzati: in Iran, gli afghani sono stati accusati di collaborare con Israele, soprattutto in relazione all’escalation del giugno scorso, e in Pakistan c’è chi pensa che una parte degli afghani abbia a che fare con gli attacchi terroristici».
L'instabilità regionale
Perché, in un quadro di crisi dei diritti e di minacce alle libertà fondamentali, si inseriscono pure le recenti tensioni dell’Afghanistan col Pakistan, dopo gli scontri al confine che ad ottobre hanno causato decine di vittime: Islamabad accusa Kabul di dare rifugio a formazioni terroristiche guidate dai talebani pakistani del Tehrik-e-Taliban Pakistan (Ttp), ai quali viene attribuita l’uccisione di centinaia di soldati. «Questi gruppi armati, come il Ttp, stanno diventando un problema enorme», osserva Sohrab Haidari, presidente dell’associazione Nawroz. «Da un lato - riporta - stanno creando dei conflitti tra Kabul e Islamabad, dall’altro stanno mettendo intere popolazioni in enorme difficoltà, anche a causa delle terre confiscate: l’ultima volta, a Ghazni, sono stati confiscati dal Ttp circa 1.400.000 metri quadrati di terreni per creare una base militare, che serva sia per un controllo sul territorio sia per un supporto ai talebani nel caso di attacchi contro il Pakistan».
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