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L’umanità ritrovata nei "pittori degli ultimi"

In occasione del Giubileo dei poveri, un itinerario da Masaccio al "Mendicante moro" di Giacomo Ceruti - di recente acquisito dagli Uffizi - ripercorre la storia di come l’arte ha guardato la miseria e la sua umanità. Nei secoli, i volti degli esclusi hanno rivelato la capacità della pittura di riconoscere nella fragilità la forza della presenza e la misura della dignità

Maria Milvia Morciano – Città del Vaticano

Il Giubileo dei poveri, in programma a Roma dal 14 al 16 novembre con le giornate dedicate agli ultimi, ai loro diritti e alla loro dignità, offre l’occasione di interrogarsi su un tema antico: come l’arte ha guardato chi vive ai margini? Nei secoli, la rappresentazione della povertà è mutata insieme alla coscienza collettiva. Dalla figura biblica del bisognoso al lavoratore precario del mondo moderno, i poveri sono stati di volta in volta simbolo di fede, di compassione o di particolari realtà sociali. Nel tempo in cui si celebra un Giubileo a loro nome, le Gallerie degli Uffizi accolgono un nuovo protagonista di questa storia: il Mendicante moro di Giacomo Ceruti.

Giacomo Ceruti, Il mendicante moro,  1725-30, olio su tela 117,5 x 93,5 cm, Gallerie degli Uffizi, Firenze
Giacomo Ceruti, Il mendicante moro, 1725-30, olio su tela 117,5 x 93,5 cm, Gallerie degli Uffizi, Firenze

Masaccio e l’inizio di una presenza

La povertà entra davvero nella pittura con Masaccio, sulle pareti della Cappella Brancacci a Firenze. Lì, all’inizio del Quattrocento, la vita quotidiana si fa spazio sacro. Nei mendicanti che chiedono aiuto a san Pietro o negli storpi che attendono una guarigione, Masaccio riconosce il volto della città. Non allegorie, ma persone. Firenze, con le sue strade, le facciate dei palazzi chiusi e la sua umanità più fragile, diventa teatro della salvezza. In questa scelta si compie una rivoluzione: il realismo non è più solo conquista tecnica, ma gesto etico. Il povero non è rappresentato per suscitare pietà, bensì come parte necessaria del mondo che l’artista abita. È in questa concretezza che la pittura italiana pone le sue radici.

Masaccio, San Pietro che risana con l'ombra, affresco, 230×162 cm, chiesa di Santa Maria del Carmine, Firenze
Masaccio, San Pietro che risana con l'ombra, affresco, 230×162 cm, chiesa di Santa Maria del Carmine, Firenze

Il Seicento e la realtà della miseria

Il XVII secolo, attraversato da guerre, carestie e pestilenze, costringe l’Europa a convivere con la povertà come condizione quotidiana. Le confraternite, gli ospedali religiosi, gli ordini mendicanti diventano parte attiva della vita sociale. È in questo clima che la pittura si apre a nuove narrazioni.  La cosiddetta “pittura di genere” sceglie le case, le botteghe, i vicoli come soggetti degni d’arte. I “pitocchi”, come venivano chiamati i mendicanti, non sono più figure marginali ma protagonisti di un racconto sulla dignità del lavoro e sulla fragilità umana. In Caravaggio i poveri sono pellegrini e credenti, nei fogli di Jacques Callot diventano eserciti di sopravvissuti. La miseria non è più il contrario della grazia, ma il suo riflesso terreno.

Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, Madonna dei Pellegrini, olio su tela, 260×150 cm, 1604-1606, basilica di Sant'Agostino in Campo Marzio, Roma
Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, Madonna dei Pellegrini, olio su tela, 260×150 cm, 1604-1606, basilica di Sant'Agostino in Campo Marzio, Roma

Giacomo Ceruti e l’umanità senza retorica

Con Giacomo Ceruti, detto il Pitocchetto, nato a Milano nel 1698, la raffigurazione dei poveri raggiunge un punto di raro equilibrio, tra realismo e rispetto. Il pittore osserva il mondo dei braccianti, dei servi, dei mendicanti delle campagne lombarde, e lo restituisce con sobrietà. Nei suoi ritratti non c’è ironia, né sentimentalismo. C’è il riconoscimento di una presenza. I suoi personaggi - donne stanche, ragazzi che lavorano, uomini vestiti di stracci - non appartengono al genere pittoresco, ma al ritratto. Ceruti li pone davanti a noi con lo stesso rigore riservato ai nobili. Non rappresenta il “povero” come tipo sociale, ma come individuo. In questo sguardo si avverte una modernità che anticipa la pittura borghese e la coscienza civile dell’Ottocento.

Jacques Callot (1592 - 1635), Mendicanti, 1622, acqueforti, 13,8 x 8,9 cm ca, da Les Gueux (I mendicanti) serie in venticinque tavole
Jacques Callot (1592 - 1635), Mendicanti, 1622, acqueforti, 13,8 x 8,9 cm ca, da Les Gueux (I mendicanti) serie in venticinque tavole

 

Il “Mendicante moro” agli Uffizi

La recente acquisizione del Mendicante moro da parte degli Uffizi riporta alla luce una delle immagini più intense della pittura europea del Settecento. L’uomo, avvolto in stracci che lasciano intravedere la fatica del vivere, è rappresentato da Ceruti con un’attenzione che non concede nulla all’aneddoto. Lo sfondo, indefinito, si perde in un pulviscolo di rosa e ocra dove il paesaggio si dissolve nelle nubi, come se il mondo reale arretrasse per lasciare spazio alla figura. La linea dell’orizzonte, volutamente bassa, concentra l’intera tensione visiva sul corpo e sul volto, rendendolo più presente, più grande, quasi a imporsi allo spettatore. È la stessa scelta che un secolo prima aveva guidato Jusepe de Ribera nel suo Storpio: un modo per restituire dignità e monumentalità a chi, nella vita, ne è privo.

La solennità di un principe

Nel Mendicante moro l’intensità nasce dallo sguardo, diretto e quieto, che cattura la luce con una fermezza priva di compiacimento. Durante il Rinascimento e il Barocco, le figure di origine africana erano spesso relegate a ruoli ornamentali - paggi, ancelle, servitori nelle residenze nobiliari, o ridotte a modelli di decorazione nelle statue dei cosiddetti “mori” che reggevano vassoi e urne. Ceruti rovescia quel linguaggio. Non c’è nulla di esotico o di decorativo in quest’uomo che, pur nella miseria, è ritratto con la solennità di un principe. La sua pelle scura, colta nella vibrazione della luce, diventa un piano di riflessione pittorica, non un segno di alterità.

Misura morale, non retorica

L’artista, operante nell’Italia settentrionale del Settecento, costruisce così una galleria di umili che non appartengono alla categoria del “pitocco” ma a quella più ampia dell’umanità. Nei suoi mendicanti, come nel Moro, non si avverte compiacimento né retorica, ma una misura morale. Ceruti trasforma la povertà in figura, la fragilità in presenza. È questa sobria grandezza che fa del suo Mendicante moro una pietra miliare nella storia dell’arte europea: un’opera che unisce compassione e rigore, silenzio e dignità, come se la pittura stessa avesse abbassato lo sguardo per riconoscere i suoi ultimi.

Jusepe de Ribera, detto lo Spagnoletto, Lo storpio (Le Pied bot), 1642, olio su tela, 16,4x0,93 cm, Musée du Louvre, Paris, © GrandPalaisRmn (musée du Louvre) / Stéphane Maréchalle
Jusepe de Ribera, detto lo Spagnoletto, Lo storpio (Le Pied bot), 1642, olio su tela, 16,4x0,93 cm, Musée du Louvre, Paris, © GrandPalaisRmn (musée du Louvre) / Stéphane Maréchalle

Ribera e la dignità dello storpio

Un secolo prima di Ceruti, a Napoli, Jusepe de Ribera aveva già restituito volto e presenza ai più poveri. Il suo Storpio - oggi al Louvre - raffigura un ragazzino mendicante con una mano e un piede deformi, che regge in una mano un cartiglio con l’invocazione latina “Donami l’elemosina per amore di Dio” e porta la stampella poggiata sulla spalla come la lancia un nobile guerriero. Quel gesto, lieve e ironico, rovescia l’immagine della sventura in un’affermazione di forza. La luce, chiara e diffusa, investe la figura dal basso e ne amplifica la presenza, come se la fragilità stessa fosse innalzata a dignità. Ribera, giunto a età matura, trasforma la lezione caravaggesca in un linguaggio nuovo, dove l’ombra cede alla trasparenza del reale. Il sorriso del ragazzo, appena accennato, è quello di chi non chiede compassione ma riconoscimento: un essere umano che si offre allo sguardo con la stessa fierezza di un ritratto regale.

Un gesto che parla al presente

Con l’arrivo del Mendicante moro, le Gallerie fiorentine si dotano non solo di un capolavoro, ma di una voce necessaria. L’opera, già nota agli studiosi e presentata in mostre fondamentali del Novecento, completa idealmente la storia di uno sguardo: quello che, dai santi medievali fino al realismo illuminista, ha cercato di dare forma alla fragilità. Oggi, mentre il Giubileo invita a rimettere al centro chi vive ai margini, il volto di questo mendicante torna a chiederci attenzione. La sua solennità muta, priva di retorica, ricorda che la povertà non è tema da decorare ma realtà da comprendere.

L’eredità dello sguardo

Dalla Cappella Brancacci al Mendicante moro attraversa i secoli una stessa domanda: che cosa significa rappresentare la dignità? Masaccio, Caravaggio, de Ribera, Ceruti - ciascuno a suo modo - hanno risposto mostrando la povertà come condizione comune, non come diversità. Nel museo come nella vita, riconoscere chi non ha volto è forse l’unica forma di pietà che l’arte ammetta: quella che nasce dalla conoscenza.

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13 novembre 2025, 14:45