Ambiente, quando distruzione e inquinamento vanno oltre la guerra
Pietro Piga – Città del Vaticano
Quando i droni non sganciano più ordigni, i lanciarazzi smettono di sparare missili e i carri armati non affondano più i cingoli sul terreno, cessa il fuoco ma non la guerra. La sua eco persiste: l’ambiente è devastato, ridotto a un cumulo di detriti e cenere, sa di bruciato e polvere da sparo e non offre un futuro né all’uomo né agli animali né alle piante. "Siamo di fronte all’ecocidio compiuto dall’essere umano, unica specie che pianifica la propria autodistruzione e si accanisce contro i luoghi nei quali abita. Dovremmo prenderci cura della nostra 'Casa comune', come scrisse Papa Francesco nell’enciclica Laudato Si’, invece di pregiudicare la nostra esistenza", afferma ai media vaticani Marzio Marzorati, membro dell’esecutivo di Rete Italiana Pace e Disarmo (Ripd), organizzazione che raggruppa associazioni, sindacati e movimenti pacifisti e disarmisti italiani.
L’impatto ambientale dei conflitti
In occasione dell’odierna "Giornata internazionale delle Nazioni Unite per la prevenzione dello sfruttamento dell’ambiente in situazioni di guerra e conflitto armato", istituita il 6 novembre 2001, Marzorati spiega che "bombardamenti, esplosioni, residui di munizioni e ordigni inesplosi non solo distruggono gli habitat naturali ma inquinano aria e suolo, e diffondono polveri sottili e altre sostanze tossiche nell’atmosfera". L’impatto ambientale del conflitto è nitido sia in Ucraina, "dove gli ecosistemi che ospitano la biodiversità sono distrutti, flora e fauna hanno subìto pesanti danni e il sistema di produzione agricola è compromesso anche dal crollo di dighe", sia nella Striscia di Gaza, "il cui tessuto urbano è stato sfigurato e la distribuzione di acqua, alimenti e medicine, così come la raccolta di rifiuti, è ostacolata". I dati più recenti raccolti dall’Osservatorio sui conflitti e sull’ambiente (Ceobs) delineano la portata della guerra sul paesaggio ucraino: nel 2024 sarebbero stati bruciati 92.100 ettari di terra, più del doppio della media annuale del biennio precedente. La Commissione europea, inoltre, segnala che gli incendi boschivi rappresentano tra il 45 e il 65% delle perdite annuali della copertura forestale nel Paese. Sulla Striscia di Gaza, invece, il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (Unep) stima almeno 61 milioni di macerie provocate dalla distruzione di oltre 250 mila edifici, con un potenziale aumento del livello di contaminazione da amianto, rifiuti industriali o metalli pesanti.
Gli altri danni
"I danni all’ambiente non si esauriscono in tempo di pace – sottolinea Marzorati – perché ad aggravare la situazione ci sono test ed esercitazioni militari condotti dalle forze armate nelle proprie basi. Si educa, presidia e prepara lo scontro. La guerra, ormai, è una costante nella nostra quotidianità". Il settore militare contribuisce all’inquinamento dell’ambiente anche durante l’addestramento, occupando tra l’1 e il 6% della superficie terrestre e producendo il 5,5% delle emissioni di gas serra globali, secondo il Ceobs. L’utilizzo di fossili in aria, terra e mare incide negativamente su adattamento e mitigazione del cambiamento climatico, provocando incendi, degradando il suolo e favorendo la deforestazione. In più, le Nazioni Unite stimano che ogni investimento da 100 miliardi di dollari nella spesa militare – che tra il 2015 e il 2024 è salita del 37% a livello mondiale ed è giunta a 2.718 miliardi di dollari – genera circa 32 milioni di tonnellate di anidride carbonica. "Il legame tra guerra, militarizzazione e ingiustizia sociale e climatica – specifica Marzorati – è evidente anche dal fatto che i conflitti si consumano in luoghi ricchi di risorse naturali, come terre rare e fossili, oggetto della contesa tra potenti. Il loro approvvigionamento e la loro spartizione tengono in ostaggio le popolazioni che vi vivono". E lo conferma Unep, secondo cui il 40% dei conflitti interni negli ultimi 60 anni è collegato allo sfruttamento delle risorse naturali.
Il clima e la debolezza giuridica
Gli esodi dalle zone di guerra sono connessi agli effetti del cambiamento climatico e danno vita a un altro fenomeno. "Tanti territori sono diventati invivibili – aggiunge Marzorati – e stanno costringendo i civili alla migrazione climatica, sottovalutata e della quale si parla poco. E questo tipo di migrazione, purtroppo, non ha un sostegno giuridico perché non c’è il riconoscimento dei rifugiati climatici". Gli appelli alla pace e alla salvaguardia degli ecosistemi non sembrano sortire gli effetti sperati anche perché "sul piano giuridico è difficile trovare documenti che trattino specificamente i costi della guerra sull’ambiente mentre le risoluzioni delle Nazioni Unite che ribadiscono la tutela dell’ambiente durante i conflitti fungono da indicazioni che vengono disattese dagli Stati membri e, dunque, hanno poca forza". Per questo "è necessario il 'disarmo climatico' perché la guerra non è una catastrofe che accade per caso – conclude Marzorati – ma è una responsabilità. Dobbiamo far sì che le risorse vengano destinate al contrasto della crisi climatica, senza sprecarle e, come si legge in Laudato Si’, non dobbiamo creare 'uno scenario favorevole per nuove guerre, mascherate con nobili rivendicazioni'".
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