La situazione dei cristiani in Pakistan e l’importanza del fattore religioso
Guglielmo Gallone - Città del Vaticano
“La situazione dei cristiani in Pakistan è in peggioramento anno dopo anno: le stime ufficiali parlano di una comunità piccola, circa l’1,9 per cento della popolazione, ma i cristiani locali non concordano e, soprattutto, raccontano un clima segnato da minacce, abusi della legge sulla blasfemia e attacchi spesso guidati da gruppi radicali”: esordisce così Mobeen Shahid, professore presso la Facoltà di filosofia dell’università Urbaniana e fondatore dell’associazione Pakistani cristiani in Italia, parlando ai media vaticani. Lo abbiamo raggiunto a margine di un incontro promosso martedì presso la Camera dei Deputati italiana sulla libertà religiosa e i cristiani perseguitati nel mondo, nell’ambito della Red Week di Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS).
Il rischio dell'estremismo
Tema fondamentale soprattutto in Pakistan perché, “nonostante la maggioranza musulmana sia moderata e favorevole alla convivenza – chiarisce Shahid – pochi estremisti riescono a manipolare la situazione: basta una falsa accusa per scatenare violenze che colpiscono interi quartieri, proprietà e famiglie cristiane”. Viene in mente in tal senso la cosiddetta legge sulla blasfemia che, in Pakistan, sembra essere la più controversa per le minoranze religiose: come mai? “Perché è facilmente abusabile e quindi intoccabile – replica il professore pakistano –. Negli ultimi quarant’anni abbiamo visto casi in cui una sola persona veniva accusata falsamente ma l’intero quartiere cristiano viene bruciato. Questa legge colpisce però anche i musulmani, ad esempio quando un gruppo accusa l’altro di non essere davvero musulmano. Tuttavia, c’è una grande differenza: quando si tratta dei musulmani, viene presa di mira solo la persona accusata. Contro i cristiani, invece, le false accuse di blasfemia scatenano attacchi collettivi”.
Quale ruolo per la religione in Pakistan
Tutt’altro che relegata alla sola sfera personale, in Pakistan la religione ha un ruolo centrale nella narrazione e nella legittimazione del potere: da ultimo, lo si sta vedendo con la figura di Asim Munir, il capo delle Forze Armate cui il Parlamento pakistano questa settimana, con l’approvazione del ventisettesimo emendamento, ha concesso poteri straordinari, immunità a vita e il controllo sulla nuova Corte costituzionale. Nell’aprile 2025 Munir aveva pronunciato un discorso in cui richiamava la teoria delle “due nazioni”, l’idea alla base della nascita del Pakistan: musulmani da una parte, indù dall’altra. È un esempio chiaro di quanto la religione continui a pesare nella narrazione pubblica e nella legittimazione del potere pakistano. Eppure, non è sempre stato così. “Il Pakistan non nasce come Stato islamico – osserva il professor Shahid – il discorso di Jinnah dell’11 agosto 1947 era laico e solo nel 1973 con Bhutto e poi con Zia-ul-Haq si è passati a una Repubblica islamica. Questa svolta ha imposto un uso politico della religione che ancora oggi pesa sulla vita pubblica e alimenta fronti diversi con i Paesi vicini: quello indiano, quello afghano e quello interno contro i gruppi radicali”.
Il recente scontro armato con l'India
Non è dunque un caso se ad essere centrale nella legittimazione del potere e nella popolarità del capo delle Forze armate, Munir, sia stato proprio il recente scontro armato con l’India: “La tensione con Nuova Delhi è alta dal 1947, ma è cresciuta dopo l’appropriazione del Kashmir da parte del premier indiano Narendra Modi e, senza l’intervento della comunità internazionale, in particolare degli Stati Uniti, il rischio era quello di uno scontro tra due potenze nucleari. Il conferimento del titolo di Field Marshal e l’incarico a vita, ottenuti dopo i quattro giorni di combattimento e i cinque aerei abbattuti dal Pakistan, hanno rafforzato la struttura dell’apparato militare pakistano, ma allo stesso tempo rischiano di indebolire una democrazia già fragile”.
Kabul, l'altro fronte di Islamabad
Anche perché, oltre a quello indiano, c’è il fronte aperto con l’Afghanistan: a ottobre, dopo una serie di attentati dei talebani pakistani, Islamabad ha risposto colpendo obiettivi in territorio afghano. Kabul ha reagito, lanciando raid lungo la frontiera. C’è stata una tregua lampo mediata dal Qatar, ma la tensione resta altissima. Perché non si tratta solo di un altro scontro, bensì di un contesto che tocca il fondamento stesso della dottrina di sicurezza pakistana: Islamabad ha colpito l’Afghanistan proprio mentre i rappresentanti del governo talebano si trovavano in visita in India perché, per i pakistani, un avvicinamento tra India e Afghanistan significherebbe perdere la propria influenza regionale e, quindi, internazionale. Due crisi armate in soli cinque mesi, seppur brevi, non sono un fenomeno da ignorare per un Paese come il Pakistan. Che dal 1998 è una potenza nucleare, che è il quinto Paese più popoloso al mondo, con 255 milioni di abitanti, e il secondo per numero di attacchi terroristici. Al contrario, impongono di capire la postura pakistana per il futuro di una regione tanto strategica, così come di un Paese cerniera tra Asia e Medio Oriente.
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