"La Grecia a Roma": immagini e potere nella città che cambiò volto
Maria Milvia Morciano – Città del Vaticano
Quando un Paese ne conquista un altro, cosa accade davvero, se il Paese conquistato è portatore di una cultura, un’arte, una bellezza e un pensiero più densi e strutturati? Quale trasformazione investe il conquistatore? È possibile, attraverso una mostra di arte antica osservare da vicino i meccanismi della storia e interrogarsi su questioni che continuano a riflettersi nel presente?
La grande esposizione allestita a Villa Caffarelli, La Grecia a Roma, affronta questo nodo con rigore e limpidezza. Claudio Parisi-Presicce, sovrintendente capitolino e co-curatore insieme a Eugenio La Rocca, intervistato da Vatican News – Radio Vaticana, ci conduce dentro un percorso che si dispiega con un racconto coerente, denso di materiali, ricostruzioni e confronti, e che mette in luce un’eredità artistica che è stata capace di modellare l’immagine stessa di Roma.
Un dialogo lungo secoli
La mostra indaga un rapporto che evolve nel tempo, oscillando fra attrazione, appropriazione e rielaborazione. Parisi-Presicce sottolinea, citando la celebre frase di Orazio, Graecia capta ferum victorem cepit, che “i romani conquistarono la Grecia ma subito dopo la Grecia ha conquistato Roma”, allora ancora “selvaggia” - scrisse il poeta latino - lontana per qualità e consapevolezza artistica. Il percorso espositivo si apre con i contatti commerciali tra Roma e le manifatture corinzie, euboiche e cirenaiche, e con le città dell’Etruria e della Campania - Pithecusa, Cuma, Cerveteri, Tarquinia - che facevano da cerniera tra mondi e linguaggi. La fase più incisiva si sviluppa con l’espansione romana nel Mediterraneo orientale. “I generali portano a Roma come bottini di guerra i capolavori che incontrano nei santuari e nelle aree pubbliche delle città greche”, spiega il sovrintendente, collocandoli poi negli spazi pubblici, e trasformando così l’immagine stessa della città.
La nascita di un collezionismo identitario
Dalla metà dell’età repubblicana si affaccia una nuova stagione: il collezionismo. “Alcune personalità particolarmente importanti come Varrone, Cicerone, poi lo stesso Giulio Cesare, si appropriano di queste opere d’arte per decorare le proprie residenze”. È qui che Parisi-Presicce colloca l’inizio della vera appropriazione culturale, quando Roma non si limita a ricevere ma riformula. Le botteghe greche si trasferiscono nella capitale, “cominciano a produrre per i Romani” e consolidano un gusto che torna a declinarsi in nuove forme.
La trasformazione del paesaggio urbano
Molte opere giunte a Roma non conservano più il loro contesto originario. In alcuni casi, tuttavia, frammenti e dati consentono ricostruzioni più precise. “Quando le opere vengono riutilizzate come decorazione dei frontoni, dei timpani dei templi greci”, come nel caso del Tempio di Apollo Medico, eretto da Gaio Sosio, è possibile ricomporre almeno in parte l’antico programma figurativo. Lo stesso avviene negli Horti Sallustiani, dove sculture greche - oggi disperse tra Roma e Copenaghen - popolavano i percorsi dei giardini. Parisi-Presicce ricorda anche che “sono stati individuati dei numeri incisi sul metallo” di alcuni bronzi rinvenuti a vicolo delle Palme, indizi di catalogazioni pubbliche che documentano la gestione di questo patrimonio.
La frase-chiave: l’appropriazione della memoria
Fra le riflessioni del Sovrintendente, una in particolare restituisce la portata culturale del fenomeno e merita di essere riportata integralmente: “Quindi i Romani non si appropriano soltanto delle opere d'arte, ma si appropriano anche della memoria dei Greci, della tradizione dei Greci, motivi iconografici, miti, diventano parte del repertorio e della cultura figurativa e quindi della nuova identità dei romani”. Una dichiarazione che sintetizza la profondità del processo: Roma incorpora la Grecia come patrimonio materiale e insieme come fondamento narrativo della propria identità.
Stele, giardini, identità
Tra i materiali più rivelatori figurano alcune stele funerarie della fine VI–prima metà del V sec. a.C., rinvenute negli Horti di Mecenate all’Esquilino. Parisi-Presicce spiega che “probabilmente non avevano più la funzione di segnacolo di sepolture, ma erano diventate elementi di arredo” che attestavano prestigio, competenza artistica e memoria familiare.
Rivedere le opere nei loro spazi
Le ricostruzioni immersive hanno un ruolo decisivo. “La ricostruzione virtuale ci consente di avere una visione diretta e una percezione emotiva particolarmente suggestiva delle sculture nella loro collocazione originaria”. Il caso del Tempio di Apollo Sosiano è emblematico: impossibile da ricostruire fisicamente, ritrova coerenza attraverso la restituzione digitale. In mostra compaiono anche frammenti recentemente attribuiti, come “i frammenti di capigliatura in bronzo che appartengono alla statua di Teseo” e il “colmo del triangolo timpanale”, mai esposto prima, che dimostra la grandezza di questi luoghi architettonici.
Capolavori e presenze rare
Tra le oltre centocinquanta opere esposte emergono nuclei di straordinario rilievo: i grandi bronzi capitolini riuniti insieme in modo eccezionale, le sculture dei Niobidi dagli Horti Sallustiani - divisi per secoli tra Roma e Copenaghen - e la stele dell’Abbazia di Grottaferrata, rara testimonianza dell’eleganza funeraria arcaica. Accanto a questi capolavori, un ritorno di forte valore simbolico: una figura acroteriale (elemento decorativo posto sul vertice del tetto dei templi) femminile della celebre collezione Peretti Montalto, venduta oltre due secoli fa e di nuovo visibile nella capitale. Completano il percorso ceramiche attiche recentemente rinvenute nell’area del Colosseo, presentate per la prima volta al pubblico. Le ricostruzioni immersive, attraverso videoproiezioni e restituzioni digitali, amplificano la percezione di questi materiali, restituendo ai gruppi scultorei la loro collocazione originaria e permettendo di comprendere la scala monumentale dei complessi di cui facevano parte.
Una chiave per il presente
Visitare La Grecia a Roma non significa soltanto attraversare una sequenza di capolavori. È un’occasione per osservare come una civiltà abbia riletto sé stessa attraverso ciò che ha conquistato e da cui è stata, inevitabilmente, trasformata. L’esposizione mostra con particolare chiarezza come l’arte greca, nel tempo, sia stata recepita, inglobata e poi restituita secondo forme diverse di potere: dapprima collocata negli spazi pubblici durante la Repubblica - nei templi, nei portici, nei fori - come strumento di rappresentazione collettiva; successivamente assorbita dalle élite, che la trasformano in oggetto di collezionismo e in dichiarazione di prestigio personale. È un processo che Parisi-Presicce descrive richiamando la stratificazione di appropriazioni, riletture e trasferimenti: dalle opere giunte come bottini di guerra, alla nascita di un gusto romano fondato sulla familiarità con i modelli greci, fino alla produzione delle botteghe elleniche trapiantate nella capitale.
Come cambia lo sguardo nei secoli
La mostra rende visibile questo movimento lungo i secoli, mostrando come ogni fase politica abbia prodotto un diverso modo di guardare all’eredità greca. Ed è proprio in questa capacità di far dialogare tempi diversi che la mostra acquista il suo significato più attuale. Non perché ponga domande irrisolte, ma perché permette di riconoscere come quelle stesse dinamiche - appropriazione, trasformazione, riscrittura - possano specchiarsi nel presente. Comprendere questi passaggi non è un esercizio di erudizione: è un modo per leggere i meccanismi della storia e, attraverso essi, le forme delle epoche moderne.
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