RD Congo e Rwanda firmano un accordo di pace, ma non si ferma la guerra
Giada Aquilino - Città del Vaticano
Da una parte un accordo di pace «potente e dettagliato», così come è stato definito da Donald Trump quello siglato ieri a Washington dai presidenti congolese e rwandese, Félix Tshisekedi e Paul Kagame. Dall’altra gli intensi combattimenti che continuano a infuriare nell’est della Repubblica Democratica del Congo. È uno scenario di nuove prospettive e insieme vecchie instabilità quello che insiste su una terra che da fine anni Novanta del secolo scorso è teatro di un conflitto tra gruppi ribelli — il principale è oggi l’M23 — ed esercito di Kinshasa, in cui si intrecciano influenze regionali e internazionali, prima tra tutte quella del Rwanda, accusato da vari rapporti, anche dell’Onu, di fornire un appoggio proprio all’M23. Kigali, da parte sua, ha sempre respinto ogni addebito e i ribelli non hanno mai riconosciuto alcun legame.
L'accordo di Washington
Il capo della Casa Bianca ha presieduto la cerimonia della firma organizzata all’Istituto per la pace della capitale statunitense, che da qualche girono porta il suo nome. Trump non ha nascosto la propria soddisfazione parlando di «un grande giorno per l’Africa» e definendo l’intesa un «miracolo». L’accordo — che ha formalizzato gli impegni già presi dai due Paesi africani a giugno scorso negli Stati Uniti, mentre a Doha si portava avanti una mediazione parallela guidata dal Qatar — consta di tre parti. La prima riguarda la fine delle ostilità, con l’istituzione di un cessate-il-fuoco, un programma di disarmo, un processo di ritorno degli sfollati e misure di «giustizia» contro i responsabili delle violenze, ha dichiarato il presidente statunitense. La seconda è un quadro di integrazione economica regionale. L’ultima sezione è inerente alla conclusione di intese bilaterali degli Usa con Kinshasa e Kigali sullo sfruttamento di minerali strategici, soprattutto il coltan, indispensabili per le industrie high-tech e di cui la Repubblica Democratica del Congo è ricca. Lo stesso Trump non ha celato l’interesse delle «più grandi e migliori aziende» statunitensi: «andremo a estrarre alcune terre rare, a prendere delle risorse, a pagare e tutti faranno molti soldi», ha detto, ribadendo di essere riuscito finora a «fermare otto guerre».
Diversi i toni usati dai presidenti dei due Paesi africani. Paul Kagame ha elogiato la mediazione di Trump, prevedendo al contempo «alti e bassi» nell’applicazione dell’accordo. Tshisekedi ha ringraziato il capo della Casa Bianca per aver portato una «svolta» e ha salutato «l’inizio di un nuovo percorso», definendolo tuttavia «impegnativo» e «piuttosto difficile». La loro «determinazione politica» è stata comunque salutata con soddisfazione dalla missione di pace dell’Onu in Repubblica Democratica del Congo (Monusco), che legge l’intesa di Washington come una «nuova opportunità» per ristabilire la fiducia, gettando basi «più solide» per una pace duratura e cercando di alleviare le sofferenze della popolazione congolese.
Perché di fatto sul terreno le armi non si fermano, nel quadro di un’emergenza umanitaria che secondo le Nazioni Unite ha già provocato almeno 4,6 milioni di sfollati interni tra il Nord e il Sud Kivu.
Le armi non tacciono
I combattimenti in queste ore si sono concentrati proprio nel Sud Kivu, in particolare a Kamanyola, al confine con Rwanda e Burundi. «Da inizio settimana e ancora ieri ci sono stati combattimenti feroci con armi pesanti, droni, bombardamenti aerei», spiega da Bukavu un missionario che per motivi di sicurezza preferisce l’anonimato. «Nella zona sud di Kamanyola ci sono l’esercito congolese, quello burundese, i patrioti. La zona nord dell’agglomerato è invece occupata dall’M23. Kamanyola — aggiunge — si è in gran parte svuotata. In molti sono fuggiti oltre frontiera: le bombe cadono sulle case, sulle scuole, sulle chiese. La gente è terrorizzata perché la guerra la fanno i militari, che peraltro spesso sono mandati a morire, ma sono i civili che ne pagano il prezzo». Ecco perché la notizia dell’intesa di Washington, aggiunge, è stata accolta «con molta disillusione dalla popolazione: a firmare sarebbe dovuto andare l’M23, che invece nell’accordo compare solo tre volte. È strano che — prosegue il missionario, riportando una riflessione della gente — se la guerra si fa con l’M23 poi sia stato il presidente del Rwanda a siglare l’accordo e non il capo» della milizia armata.
Un dialogo che coinvolga tutti
Dal terreno intanto arrivano appelli ad ampliare il percorso della pace. Come quello della società civile congolese, rilanciato dalla rivista comboniana Nigrizia: un gruppo di 67 organizzazioni chiede «con urgenza» un dialogo nazionale inclusivo che coinvolga tutti gli attori armati e le opposizioni politiche del Paese.
«I vescovi — aggiunge il missionario da Bukavu — avevano già delineato un programma», assieme alla Chiesa protestante, subito dopo la presa di Goma da parte dell’M23, a fine gennaio, seguita il mese successivo da quella di Bukavu. «È una guerra che va avanti da 30 anni, ci sono rivalità, gruppi armati che nessuno controlla, rivendicazioni ataviche, problemi etnici oltre che politici, senza parlare della corruzione e dell’impunità dei massacri. Ciò che serve è che ci si metta tutti attorno a un tavolo per discutere: i problemi fondamentali vanno risolti in un dialogo di carattere politico, etnico, militare ed anche economico, perché tutto è iniziato per lo sfruttamento delle miniere. Se ci fossero state solo sabbia o erba, non credo che avremmo avuto tutto ciò che è successo da 30 anni a questa parte».
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