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Don Carlo Giorgi con alcuni dei migranti accolti nella parrocchia di St. Joseph Amonot Beirut Don Carlo Giorgi con alcuni dei migranti accolti nella parrocchia di St. Joseph Amonot Beirut

Il prete italiano che in Libano aiuta i migranti: “Siamo una Chiesa casa per tutti”

Don Carlo Giorgi, originario di Milano, sacerdote da 7 mesi e in Libano da 9 anni, opera nella parrocchia di St. Joseph Amonot a Beirut, approdo di gente in fuga da violenze e povertà o in cerca di lavoro. “Durante la guerra abbiamo aperto le porte ai profughi del Sud che avevano perso tutto per i bombardamenti israeliani. Abbiamo accolto anche centinaia di musulmani. Mi hanno detto che non avevano mai visto un amore così. Non si tratta di convertire qualcuno ma far vedere che il Vangelo è vivo"

Salvatore Cernuzio – Inviato a Beirut

Don Carlo Giorgi per vent’anni ha fatto il giornalista a Milano e sarà forse questo a dargli la cura per il dettaglio, l’attenzione alle parole, la capacità di vedere la storia dietro un volto. Qualità tornate utili in questi nove anni trascorsi in Libano: dal 2016 come seminarista del Redemptoris Mater, da sette mesi come presbitero (“Sono un giovane vecchio prete”, scherza). Il sacerdote, 57 anni, appartenente al Cammino Neocatecumenale, presta servizio nella parrocchia di St.Joseph Amonot, nel centro di Beirut. La stessa in cui lavora la domestica filippina Loren Capobres che oggi ha pronunciato davanti al Papa la sua testimonianza durante l’incontro con il clero ad Harissa. Una testimonianza di accoglienza e assistenza costante di migranti e rifugiati, inclusi quelli di guerra. Lo stesso servizio di don Carlo, anche lui presente all'appuntamento con il Pontefice.

Ascolta l'intervista a don Carlo Giorgi, sacerdote italiano in Libano

Raccontaci il tuo servizio in parrocchia.

Sono nella parrocchia dei migranti di lingua inglese di Beirut, San Giuseppe Amonot. È la parrocchia dove vengono tutti i poveri, quelli che lavorano nelle case, nelle fabbriche, che sono venuti in Libano perché non potevano venire in Europa. Provengono da Asia, Africa, e sono la maggior parte cattolici che non riescono a seguire un rito orientale in arabo e parlano inglese. La nostra è una Messa universale per tutto il mondo. Domenica mattina alle 11 a San Giuseppe c'è davvero tutto il mondo.

Che storie portano sulle spalle questi migranti?

Sono rifugiati. Rifugiati politici, rifugiati per lavoro, rifugiati a causa della guerra o anche semplicemente perché in cerca di un lavoro per sopravvivere e far campare la famiglia. Migrare in Libano è una cosa che forse è più semplice per certi versi perché non c'è bisogno del visto di un Paese europeo che sarebbe più complicato. Il problema, però, a volte è quello del sistema della Kafala.

Di cosa si tratta?

È il sistema legale che vincola il lavoratore al datore di lavoro in un modo molto molto stretto, al punto che il datore di lavoro ha diritto su questa persona di tenerla in casa o di farla uscire. E se la fa uscire, a volte, viene trattenuto il passaporto, ci sono degli abusi molto gravi e tanti immigrati vivono una vita veramente complicata quando perdono il lavoro, perché perdono anche i documenti. Ad esempio, la mamma di due delle nostre bambine in parrocchia che hanno frequentato il campo estivo questa estate, solo perché non aveva i documenti è stata arrestata e da tre mesi è in carcere. Non ha fatto niente! E le bimbe sono senza mamma adesso… Ma questa è una storia abbastanza comune.

E voi come parrocchia cosa fate per aiutare questa gente a livello materiale ma anche a livello spirituale?

La cosa più importante è farli sentire a casa. Il nostro parroco quando inizia la messa dice sempre “Welcome home!”, questa è casa vostra e loro lo sentono molto. La Messa è una festa, una festa di persone che credono in Dio, che vogliono sentirsi fratelli e sorelle. Ogni domenica una comunità diversa prepara il pranzo per tutti: parlo di 200 persone da Filippine, Sri Lanka, Nigeria, Sudan. Mangiamo etnico noi la domenica! E poi chiaramente ci preoccupiamo di tutto, cerchiamo di aiutarli per le rette scolastiche, la pastorale dei sacramenti, la pastorale di base. Tanti di loro desiderano l'educazione cattolica dei figli, ma non hanno i mezzi perché entrambi i genitori sono fuori casa e tante volte vivono in ambienti totalmente islamizzati, ma la cosa bella è che hanno veramente il desiderio di farlo. Ultimamente è nato anche un gruppo giovanile e un gruppo di bambini di tutto il mondo. Un po’ alla volta cerchiamo di fare quello che diceva oggi il Papa e cioè, ripeto, di farli sentire a casa loro. La pastorale dell’immigrazione è la pastorale di persone che hanno bisogno di una casa e di condividere una casa.

Proprio questa indicazione del Papa all’accoglienza, come risuona per te che sei immerso in questa realtà parrocchiale? E come pensi che possa essere percepita e recepita da queste persone?

Io penso che le parole del Papa hanno centrato il bersaglio: la Chiesa come casa di tutti. A questa gente manca a volte questa casa e hanno difficoltà a causa della lingua, non perché le Chiese non vogliano accogliere, ma tante volte ci sono ostacoli culturali. C’è una grande ricchezza nelle Chiese orientali, c’è bellezza nella Chiesa latina in Libano e io dico sempre ai giovani della nostra parrocchia: noi siamo come la GMG, siamo di tutto il mondo, siamo libanesi, africani, asiatici, europei e possiamo condividere tutto con una base di liturgia e ambiente che è il nostro ambiente, quello conosciuto da tutti.

Anche con l’evangelizzazione?

Assolutamente. La chiesa in Libano può fare cose eccezionali. Noi siamo immersi in un ambiente musulmano, un ambiente non cristiano ma è facilissimo comunicare. Il Libano è l’unico Paese dove c'è questa libertà religiosa, che i Papi chiedono in tutti gli incontri interreligiosi. La libertà religiosa, la libertà di convertirsi, di ascoltare, di cambiare, di praticare, di fare un pellegrinaggio, di uscire dalla chiesa e fare un giro della parrocchia con una croce. Questa libertà, che negli altri Paesi non è garantita, in Libano c’è. E i cristiani libanesi possono fare tantissimo, perché il Libano è uno Stato che è un porto, è il punto di partenza per l’Oriente e l’Occidente, è un punto di incontro. Qui si può veramente evangelizzare.

Il Libano ha vissuto e sta vivendo ancora il dramma della guerra, in particolare al sud. Per i rifugiati fuggiti dai conflitti, cosa è stato fatto? Quale tipo di pastorale è stata messo in campo e quale aiuto umanitario?

I rifugiati sono di tutte le religioni. Ai cristiani che vengono e ci chiedono una pastorale, diamo ciò che possiamo dare: la pastorale biblica, la pastorale dei sacramenti, la pastorale di base, di educazione e di conoscenza basica della nostra fede. Poi la pastorale matrimoniale che è importantissima, perché tanti migranti arrivano, si sposano, sono matrimoni molto fragili tante volte, anche interreligiosi, dove ci sono tante difficoltà che all'inizio quando ci si sposa non si vedono... C'è anche un problema di tipo economico, tante volte si tratta di persone che non hanno neanche i soldi per pagare la scuola dei figli o che per venire in chiesa devono prendere i taxi perché non hanno un'automobile e fanno sacrifici molto grandi. Certamente c’è tutto un discorso caritativo che viene fatto con loro.

Alla vostra parrocchia hanno bussato anche dei musulmani?

Certamente hanno bussato anche musulmani. Ci sono musulmani che ascoltano, che sono curiosi di sapere chi è Gesù Cristo, che desiderano ascoltare la parola e che chiedono accoglienza. Durante la guerra è successo in molti casi che noi abbiamo aperto le porte a tutti i profughi che venivano dal Sud e che avevano perso tutto perché i bombardamenti israeliani sono stati molto duri. Quindi abbiamo avuto la possibilità di accogliere un centinaio di musulmani e la parrocchia è diventata uno shelter per diversi mesi, i parrocchiani si sono dati da fare, parlo di queste signore filippine che lavorano nelle case e poi vengono la sera a dare una mano. È stato molto bello, è stata un'occasione di condivisione e di carità enorme e loro questo lo hanno visto, erano molto stupiti. Io personalmente ho parlato con almeno tre persone che mi hanno detto che non avevano mai visto un amore come questo. È un po’ quell’essere sale… Non si tratta di convertire per forza qualcuno, ma di salare le persone, di far vedere che il Vangelo è vero, che il Vangelo è una parola viva, che cambia la vita e che dà sapore a tutto.

Un’ultima domanda, Don Carlo. Tu sei da nove anni qui in Libano ed è da tredici che un Papa non toccava il Paese dei Cedri, adesso avviene con Leone XIV. Cosa succede con questa visita e cosa succederà? Che messaggio dà la presenza del Successore di Pietro in questa terra?

Il vescovo dice che sono 50 anni che questa terra è in guerra, quello che spera profondamente la gente è che questo Papa “metta fine” alla guerra, che dica una parola che possa convertire i cuori. Ma il Papa non è Mago Merlino, il Papa dirà una parola, bisogna ascoltarla! Quindi quello che stiamo dicendo a tutte le parrocchie del Libano è “ascoltate quello che dice il Papa, ascoltatelo!”. Perché se lo ascoltiamo può succedere qualcosa, possiamo cambiare i cuori e possiamo mettere fine alla guerra.

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01 dicembre 2025, 16:00