Il Papa: disarmiamo i proclami, chi si stanca del dialogo non spera nella pace
Edoardo Giribaldi – Città del Vaticano
Una stretta di mano suggella un accordo. “Ad cor”, al cuore, evoca un battito ancora più autentico, che parla di onestà. Valore spesso soffocato, nelle arene pubbliche, dal fragore dell’offesa, che brandisce bugie, “propaganda e ipocrisia”. Sempre urgente, dunque, è l’esortazione a “disarmare” le parole. Un leitmotiv da ravvivare costantemente, poiché chi ne è stancato ha già smesso di “sperare la pace”. È questo il rischio da cui Papa Leone XIV mette in guardia questa mattina, 13 dicembre, i partecipanti al Giubileo della diplomazia italiana. Sono oltre tremila i funzionari ricevuti in Aula Paolo VI, tra i quali il ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, e vicepresidente del Consiglio dei ministri, Antonio Tajani.
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Tendere al bene e alla giustizia che mancano
Il tradizionale passaggio attraverso la Porta Santa, ricorda il Pontefice, è un gesto di speranza condivisa, tema cardine dell’Anno Santo in corso. Una virtù che non è un “confuso desiderio di cose incerte”, ma “il nome che la volontà assume quando tende fermamente al bene e alla giustizia che sente mancare”.
La speranza mostra allora un prezioso significato per il servizio che svolgete: in diplomazia, solo chi spera davvero cerca e sostiene sempre il dialogo fra le parti, confidando nella comprensione reciproca anche davanti a difficoltà e tensioni. Poiché speriamo di capirci, ci impegniamo a farlo cercando i modi e le parole migliori per raggiungere l’intesa.
Al cuore, oltre "formalità procedurali"
Patti e trattati, osserva il Papa, nascono da accordi. Una parola che rimanda al cuore e che esprime la sincerità di gesti talvolta ridotti a “formalità procedurali”. È questo il tratto che distingue una missione diplomatica genuina da quella intrisa di calcoli indirizzati a “tornaconti di parte” o da equilibri tra rivali che, in realtà, nascondono profonde distanze. Resistere a tali derive significa imitare Gesù, fulgido esempio di riconciliazione e di pace nel compiere "il dialogo di Dio con gli uomini”. È proprio questa la parola che risuona più volte nel discorso di Leone XIV: la conversazione, fulcro delle “relazioni fondamentali della nostra esistenza”.
Dialogare in famiglia
Non è un caso, nota il Papa, che un luogo dove la relazione è di casa, come la famiglia, possa essere associato a un popolo intero. “Madre” è il termine con cui si definisce la propria lingua, che custodisce la cultura di una “patria” intera. Le parole, in ogni idioma, esprimono infatti una “specifica comprensione del mondo”, dai suoi valori più alti ai costumi quotidiani: un patrimonio comune attraverso cui la società prolifera.
In un clima multietnico diventa allora indispensabile aver cura del dialogo, favorendo la comprensione reciproca e interculturale come segno di accoglienza, di integrazione, di fraternità. A livello internazionale, questo stesso stile può portare frutti di cooperazione e di pace, a patto che perseveriamo a educare il nostro modo di parlare.
L'importanza della parola
“Di parola”, osserva ancora il Pontefice, è la persona onesta, costante e fedele, “senza voltafaccia”. Allo stesso modo, un individuo è coerente quando mette in pratica ciò che dice: il suo dialogo diventa così un pegno offerto all’interlocutore, e “il valore della parola data dimostra quanto vale la persona che la pronuncia”.
Il senso dell'ascolto
Il Cristianesimo aderisce pienamente alla Parola: quella che il fedele ascolta da Dio, in primis, “corrispondendo nella preghiera al suo appello paterno”. È un’apertura che si esprime nell’esortazione “Effatà”, che accompagna il segno della Croce tracciato sulle orecchie nel Battesimo.
In quel gesto, che ricorda la guarigione operata da Gesù, viene benedetto il senso attraverso il quale riceviamo le prime parole di affetto e gli indispensabili elementi culturali che sostengono la nostra vita, in famiglia e nella società.
"Disarmare proclami e discorsi"
Dai sensi e dal corpo si passa al linguaggio, anch’esso bisognoso di essere educato “alla scuola dell’ascolto e del dialogo”. Essere autentici cristiani – ma anche cittadini onesti, in senso più ampio – significa possedere un vocabolario capace di dire “le cose come stanno, senza doppiezza”, promuovendo la concordia. È un compito che il Pontefice affida a ogni diplomatico, specialmente nell’odierno contesto internazionale segnato da “prevaricazioni e conflitti”, dove il dialogo stride con l’offesa più che con il silenzio. Quest’ultimo, infatti, “apre all’ascolto”, accogliendo le parole dell’altro; l’insulto, invece, è un’“aggressione verbale”, una “guerra di parole” che si arma di “menzogne, propaganda e ipocrisia”.
Impegniamoci con speranza a disarmare proclami e discorsi, curandone non solo la bellezza e la precisione, ma anzitutto l’onestà e la prudenza. Chi sa cosa dire, non ha bisogno di molte parole, ma solo di quelle giuste: esercitiamoci dunque a condividere parole che fanno bene, a scegliere parole che costruiscono intesa, a testimoniare parole che riparano i torti e perdonano le offese. Chi si stanca di dialogare, si stanca di sperare la pace.
La pace che unisce l'umanità
A questo proposito, Leone XIV rievoca l’accorato appello che san Paolo VI rivolse alle Nazioni Unite 60 anni fa. Ciò che unisce gli uomini è un patto suggellato “con un giuramento che deve cambiare la storia futura del mondo: non più la guerra, non più la guerra! La pace, la pace deve guidare le sorti dei Popoli e dell’intera umanità”. La concordia è dunque il “dovere che unisce l’umanità” nella ricerca universale della giustizia: l’intento che accompagna la vita di Gesù dalla notte di Natale alla Pasqua di morte e risurrezione, il “bene definitivo ed eterno che speriamo per tutti”.
Siate dunque uomini e donne di dialogo, sapienti nel leggere i segni dei tempi secondo quel codice dell’umanesimo cristiano che sta alla base della cultura italiana ed europea.
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