Cerca

Leone XIV saluta i partecipanti all'icontro con la Chiesa libanese nel Santuario di Harissa Leone XIV saluta i partecipanti all'icontro con la Chiesa libanese nel Santuario di Harissa  (@Vatican Media)

Forza, resilienza e fede del Libano in quattro testimonianze

Davanti a Leone XIV e alle 4 mila persone radunate nel Santuario mariano di Harissa, una religiosa, una migrante e due sacerdoti hanno offerto uno spaccato della Chiesa che opera nel Paese, tra frontiere minacciate dalla guerra, carceri dove è di casa anche il perdono, persone che fanno di una nuova patria una terra solidale per chi come loro ha lasciato indietro tutto

Lorena Leonardi - Città del Vaticano

Un parroco del Nord del Libano, al confine con la Siria; una religiosa direttrice scolastica che ha scelto di restare sotto le bombe di Baalbeck; una filippina impegnata nella pastorale dei migranti; un cappellano delle carceri, dove muri e crimini nascondono volti e anime. Sono i quattro testimoni che hanno dialogato a cuore aperto con Leone XIV durante l’incontro con i vescovi, i sacerdoti, i consacrati e le consacrate e gli operatori pastorali, nel Santuario di Nostra Signora del Libano ad Harissa oggi, lunedì 1° dicembre.

Il grido senza voce 

Youhanna-Fouad Fahed, sacerdote da otto anni, sposato e padre di una bambina di sei anni, è il primo a prendere la parola, in francese. È impegnato nel servizio pastorale a Debbabiyé, un piccolo villaggio al confine nord con la Siria, dove convivono musulmani e cristiani. I bombardamenti prima, la crisi economica poi, hanno reso faticosissima la situazione della parrocchia, senza elettricità e acqua potabile. Quanti erano fuggiti in un primo momento, al ritorno non avevano più mezzi di sussistenza. Quando il regime siriano è caduto, «la parrocchia ha vissuto una giornata di grande tensione», racconta, «ma la cosa più dolorosa è stata ciò che è accaduto proprio dall’altra parte del confine», dove «persone perseguitate attraversavano le linee in silenzio, fuggendo dalla sofferenza, nascondendosi nei dintorni senza dare alcun segno della loro presenza... Nessuno poteva sentire le loro grida».

Padre Fahed ha udito «un primo grido silenzioso» quando ha intravisto delle monete siriane nel sacchetto destinato all’offerta della messa domenicale. In parrocchia tutto sembrava calmo, ma sotto l’apparente serenità si nascondevano un popolo sofferente «per la crisi libanese e un altro ancora più nascosto» che subiva «la persecuzione e l’esilio». Quindi si è messo in cerca di chi aveva bisogno di aiuto, incontrando famiglie fuggite dopo persecuzioni religiose, rifugiate presso parenti per proteggere le figlie da rapimenti e matrimoni forzati, ex dipendenti del governo siriano, giovani in fuga verso l’Europa «affidando i loro sogni a trafficanti che rubavano i loro risparmi».

Tutti quei volti «segnati dalla sofferenza — ha confidato il sacerdote — mi hanno rivelato la profondità della fede» di un popolo «invisibile»: uomini e donne che continuano ad amare Dio «nel silenzio, anche se la vita li ha privati di tutto».

«Sono qui — ha detto — a nome di quelle famiglie che hanno perso tutto», dei bambini che conservano nel loro sguardo «la luce della fede» pur crescendo «tra due frontiere», e dei giovani che «vedono un futuro solo nella fuga».

Amare anche nella paura

Possibilità, questa, mai presa davvero in considerazione da Dima Chebib, suora dei Sacri Cuori, anche quando, nell’ottobre 2024, le bombe cadevano a Baalbeck, città a maggioranza musulmana, dove la sua congregazione religiosa opera dal 1882. «Non potevo andarmene. La mia vita è già offerta a Cristo e ai miei fratelli. Perché cercare di salvare la mia vita, quando l’ho già data?», è la disarmante domanda posta in francese dalla consacrata, che è anche direttrice scolastica. Così, la scelta — in accordo con il vescovo greco-cattolico — di restare e accogliere le famiglie rifugiate, cristiane e musulmane, venute in cerca di sicurezza e pace: «Abbiamo condiviso il pane, la paura e la speranza. Abbiamo vissuto insieme, pregato insieme e ci siamo sostenuti a vicenda nella fraternità e nella fiducia».

Le milizie armate erano spesso presenti intorno e la paura «c’era», ha ammesso la suora, rievocando l’irruzione di uomini armati al convento, «in quei momenti di insicurezza, ho trovato pace solo nella preghiera». E quando un giorno giunse l’annuncio di un missile in arrivo, suor Dima, seppur fisicamente sola, non lo era davvero, e in silenzio e pace interiore, nell’attesa si sentiva «pronta a tutto». Insieme alle Organizzazioni non governative rimaste, suor Dima e le consorelle hanno continuato a servire sul posto, seguendo insegnanti e  studenti rifugiati a Deir El Ahmar e a Zahlé, organizzando centri di studio per stare con loro dove erano andati.

Come gli Apostoli, portati dopo la Pentecoste dalla forza dello Spirito Santo fino ai confini del mondo, a Baalbeck la religiosa ha riconosciuto «lo stesso soffio», quello del Risorto che «insegna ad amare nel cuore della paura, a servire nella fatica, a sperare oltre il possibile», fino alla fine.

Porte aperte nella nuova terra

E se suor Dima ha scelto di restare, per Loren Capobres la decisione è stata invece quella di partire, attraversando diverse frontiere per approdare, diciassette anni fa, dalle Filippine in Libano. La donna ha raccontato in inglese al Papa la sua vita da migrante: «Ho lasciato la mia casa non perché lo volessi, ma perché ne avevo bisogno, per costruire un futuro migliore per la mia famiglia e per le persone che amo».

Nel Paese dei Cedri Capobres ha trovato lavoro come domestica, ma anche «uno scopo» nel servizio agli altri, come volontaria con Couples for Christ Lebanon, l’Arrupe Migrants’ Center e nella parrocchia Saint Joseph Tabaris, che considera una «seconda casa».

Molte storie di guerra, tradimento e abbandono hanno fatto tappa nella parrocchia, rifugio durante la guerra, ma una in particolare rimane indelebile nella mente della donna, quella di James, custode sudanese, e Lela, in attesa del loro secondo figlio. Vittime del sistema kafala, che lega i lavoratori ai loro datori di lavoro, i due allo scoppio della guerra erano rimasti intrappolati senza via di fuga mentre il loro capo era fuggito. Liberatisi, dopo tre giorni di cammino raggiunsero la chiesa: «Una madre che ha appena partorito cammina per tre giorni, portando con sé il neonato, il marito e il figlio di tre anni. Nel loro coraggio ho visto la luce di Dio risplendere anche nei momenti più bui».

A Saint Joseph Tabaris ogni messa inizia con «Benvenuti a casa», parole, ha riflettuto Loren, che «danno speranza», ricordando che come migranti «non siamo mai soli» e «l’amore di Dio ci circonda anche lontano da casa». Attraverso la missione della Chiesa, ha concluso, «ho visto dei miracoli», forse «non sempre grandi», ma sicuramente «piccoli gesti d’amore che cambiano la vita».

La bellezza oltre le ferite del mondo

A ricordare che a fare la differenza, sempre, è l’amore, è stato il lazzarista Charbel Fayad, cappellano delle carceri. In luoghi così caratterizzati da povertà, sovraffollamento, mancanza di igiene e sofferenza per le ferite personali, «in questa fragilità», ha garantito, «la grazia agisce con potenza».

Proprio dietro le sbarre si incontrano uomini e donne «che la società ha dimenticato, ma che Dio non ha mai smesso di amare». Lì, dove il mondo vede «muri e crimini», agli occhi di padre Fayad si svelano «volti, storie e soprattutto anime assetate di misericordia». Dietro ogni porta c’è «Cristo sofferente», negli sguardi a volte smarriti, la luce di una «nuova speranza», il riflesso della «tenerezza del Padre che non si stanca mai di perdonare». Tra le messe e le confessioni, nella condivisione del pane e della Parola, «spesso nel silenzio rinasce la gioia di sapersi amati, anche dietro le mura».

Quando un detenuto gli ha detto «Siete venuti fin qui, quindi Dio non mi ha dimenticato, ho ricordato — ha riferito il religioso — le parole di Gesù nel Vangelo di Matteo “Ero in carcere e siete venuti a trovarmi”». D’altra parte, «l’amore di Cristo non conosce confini: né quelli dei paesi, né quelli delle prigioni, né quelli dei cuori induriti. Quel giorno ho capito che il Signore non ci manda per cambiare gli altri, ma semplicemente per amarli».

Di qui la scoperta che «la misericordia non è un’idea, ma un volto», o più di uno: quello del detenuto che piange mentre riceve l’Eucaristia, quello della guardia che impara a perdonare, quello della madre che aspetta suo figlio con speranza. Nel Vangelo incarnato nei luoghi di reclusione, la Chiesa si mostra nella sua bellezza: povera, vicina, compassionevole, china sulle ferite del mondo. «Una Chiesa — ha sintetizzato — che assomiglia a Gesù».

Nelle prigioni del Libano, la misericordia ha il volto di Dio «ogni volta che un detenuto scopre di non essere solo, che la sua vita può ricominciare, che Dio lo aspetta ancora». Anche nell’oscurità delle celle, la luce di Cristo «non si spegne mai»: in qualsiasi luogo «nessuna vita è perduta», ha concluso rivolgendosi al Pontefice — quando è affidata all’amore di Cristo».

Grazie per aver letto questo articolo. Se vuoi restare aggiornato ti invitiamo a iscriverti alla newsletter cliccando qui

01 dicembre 2025, 13:26