Ep. 12 - La crisi bulgara

Sofia, Bulgaria. Il governo di Rosen Željazkov è caduto. Il Paese che dal primo gennaio 2026 diventerà il ventunesimo membro dell’area euro è di nuovo senza un esecutivo. A farlo cadere è stata un’ondata di proteste guidate soprattutto dai giovani: proteste contro la corruzione, contro un’élite percepita come distante, contro un sistema politico bloccato da anni. Un caso tutt’altro che isolato. Anzi, il 2025 è stato l’anno delle proteste giovanili: Nepal, Madagascar, Indonesia, Filippine, Kenya, Serbia. E Bulgaria.

Questo Paese è importante anzitutto perché è immerso in un'area di frontiera: affacciato sul Mar Nero, è una porta verso l’Oriente per l’Unione europea; poi, confina a sud con la Turchia, quindi è un ponte anche verso il Medio Oriente; e infine è nel cuore dei Balcani, spesso descritti come una polveriera, perché confina con Serbia e Romania. Insomma, questo è uno dei punti in cui si incrociano vari Paesi ma anche, e soprattutto, i fronti caldi dell’Europa: sicurezza, migrazioni, energia, influenza russa. C’è un problema, però. La Bulgaria è il Paese più povero dell’Unione europea. Di più, dal 2021 il Paese ha attraversato ben sette elezioni parlamentari, quindi governi di breve durata e coalizioni spesso costruite solo per sopravvivere. Il risultato lo immaginiamo: riforme promesse e rinviate, giustizia bloccata, nessuna vera resa dei conti sulla corruzione. L’ingresso nell’Unione europea, e ora quello imminente nell’euro, non hanno cancellato questa frattura. Ed è su questo terreno che è esplosa la protesta. Ne parliamo con Francesco Martino, che per l’Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa è corrispondente proprio da Sofia.