Cupich: “Dilexi te” e il Concilio, la liturgia è il luogo di solidarietà con i poveri
Blase Cupich *
Tra le numerose intuizioni tratte dalla lettura di Dilexi te, mi ha particolarmente colpito l’osservazione di Papa Leone che «il Concilio Vaticano II rappresenta una tappa fondamentale nel discernimento ecclesiale riguardo ai poveri, alla luce della Rivelazione» e che questa pietra miliare ha forgiato interamente la direzione presa dal Concilio e le sue riforme. Osserva che, mentre nei documenti preparatori vi fu solo un’allusione marginale al tema dei poveri, Papa san Giovanni XXIII lo portò all’attenzione in un radiomessaggio un mese prima dell’apertura del Concilio, dichiarando: «La Chiesa si presenta qual è, e vuole essere, come la Chiesa di tutti e particolarmente la Chiesa dei Poveri».
Questi commenti, secondo Papa Leone, hanno spinto teologi ed esperti a imprimere al Concilio una nuova direzione, che il cardinale Giacomo Lercaro, arcivescovo di Bologna, riassunse nel suo intervento del 6 dicembre 1962. Dichiarò: «Il mistero di Cristo nella Chiesa è sempre stato, ed è oggi, in modo particolare, il mistero di Cristo nei poveri… non si tratta semplicemente di un tema tra tanti, ma in un certo qual senso dell’unico tema del concilio nel suo complesso». In seguito Lercaro osservò che mentre preparava il suo intervento, aveva finito col vedere il Concilio in maniera differente: «Questa è l’ora dei poveri, dei milioni di poveri in tutto il mondo» scrisse. «Questa è l’ora del mistero della Chiesa come madre dei poveri. Questa è l’ora del mistero di Cristo, presente specialmente nei poveri».
È in questo contesto che Dilexi te ci presenta un commento particolarmente rivelatore che ci offre una nuova comprensione della riforma della liturgia dei padri conciliari. «Si prospettava così la necessità di una nuova forma ecclesiale, più semplice e sobria, coinvolgente l’intero popolo di Dio e la sua figura storica. Una Chiesa più simile al suo Signore che alle potenze mondane, tesa a stimolare in tutta l’umanità un impegno concreto per la soluzione del grande problema della povertà nel mondo».
In altre parole, la nobile semplicità perseguita da Sacrosanctum concilium nel chiedere il ripristino della liturgia non era mero antiquariato o semplicità fine a se stessa. Piuttosto, era in sintonia con quel crescente senso di «necessità di una nuova forma ecclesiale, più semplice e sobria […]». La riforma liturgica era tesa a permettere che l’azione di Dio per noi nella liturgia, specialmente nell’Eucaristia, risplendesse in modo più chiaro. Il rinnovamento del nostro culto fu perseguito in linea con il desiderio dei padri conciliari di presentare al mondo una Chiesa non definita dagli orpelli del mondo, bensì caratterizzata da sobrietà e semplicità, consentendole di parlare alla gente di questo tempo in un modo che assomigliasse molto di più al Signore e permettendole di dedicarsi in modo nuovo alla missione di proclamare la buona novella ai poveri.
La riforma liturgica ha beneficiato della ricerca accademica sulle risorse liturgiche, la quale ha identificato gli adattamenti, introdotti nel tempo, che incorporavano elementi provenienti dalle corti imperiali e reali. Tale ricerca ha evidenziato che molti di quegli adattamenti avevano modificato l’estetica e il significato della liturgia, rendendola più uno spettacolo che una partecipazione attiva di tutti i battezzati affinché fossero formati per partecipare all’azione salvifica di Cristo crocifisso. Purificandola da questi adattamenti, si mirava a consentire alla liturgia di sostenere un nuovo senso di sé della Chiesa che, come osservò Papa san Paolo VI nella sua allocuzione all’inizio della seconda sessione del Concilio, era in linea con l’ispirazione del suo predecessore di convocare il Concilio, «per aprire alla Chiesa nuove vie e insieme convogliare sulla terra le acque fresche e benefiche, ancora sconosciute, che sgorgano dalla grazia di Cristo Dio».
Era anche tesa a permettere all’Eucaristia di essere, come ha affermato Papa san Giovanni Paolo II nella sua Lettera Apostolica Mane nobiscum Domine, nuovamente un «progetto di solidarietà per l’intera umanità», rendendo chi vi partecipa un «promotore di comunione, di pace, di solidarietà, in tutte le circostanze». Ha poi proseguito, il «nostro mondo […], [tormentato] con lo spettro del terrorismo e la tragedia della guerra, chiama più che mai i cristiani a vivere l’Eucaristia come una grande scuola di pace, dove si formano uomini e donne che, a vari livelli di responsabilità nella vita sociale, culturale, politica, si fanno tessitori di dialogo e di comunione».
Il Papa santo concluse in un modo che anticipa l’insegnamento di Papa Leone, osservando che «dall’amore vicendevole e, in particolare, dalla sollecitudine per chi è nel bisogno saremo riconosciuti come veri discepoli di Cristo (cfr. Gv 13, 35; Mt 25, 31-46). È questo il criterio in base al quale sarà comprovata l’autenticità delle nostre celebrazioni eucaristiche». Con il recupero dell’antica sobrietà del rito romano, l’Eucaristia torna di nuovo a essere il luogo di pace autentica e di solidarietà con i poveri in un mondo spezzato.
* Cardinale arcivescovo di Chicago
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