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Un’abitante dei Monti Nuba col suo bambino presso l’ospedale  Madre della Misericordia, a Gidel  (foto di Marco Trovato) Un’abitante dei Monti Nuba col suo bambino presso l’ospedale Madre della Misericordia, a Gidel (foto di Marco Trovato) 

Sudan, emergenza sui Monti Nuba

La guerra si sposta verso sud. La testimonianza di padre Renato Kizito Sesana: "Questi droni non si vedono arrivare, non si sentono. Esplodono in una grande palla di fuoco e colpiscono chiunque si trovi nelle vicinanze. Sui Monti Nuba non si era mai visto». L'impegno del medico missionario statunitense, Tom Catena, la resistenza di una popolazione che non indietreggia

Guglielmo Gallone - Città del Vaticano

I Monti Nuba sono di nuovo sotto attacco. «E non ce lo aspettavamo – esordisce ai media vaticani padre Renato Kizito Sesana, missionario comboniano, reduce da un viaggio proprio nella regione posta a metà tra Sudan e Sud Sudan – perché negli ultimi tempi la guerra qui si era come congelata: le due principali fazioni che oggi si contendono il Sudan, cioè le Forze di supporto rapido (Rsf) e le milizie governative, combattevano altrove. Questo aveva lasciato la regione in una sorta di limbo: la gente continuava sì a soffrire e a vivere tra difficoltà enormi, ma senza armi in giro, senza spari. Non si vedevano soldati per strada come si vedono in altre parti del Paese».

Ascolta l'intervista a padre Renato Kizito Sesana

L'alleanza tra ribelli che cambia i Nuba

Tutto cambia però quando i dirigenti dello SPLM-Nord, il Sudan People’s Liberation Movement–North, lo storico movimento di liberazione della regione nato negli anni Ottanta nella lunga guerra contro Khartoum, decidono di avvicinarsi alle Rsf. «Questa decisione – ci spiega Kizito – non è stata capita dalla popolazione civile, perché le Rsf hanno una reputazione pessima, basti pensare a ciò che è avvenuto a El Fasher pochi mesi fa». La leadership Nuba sembra aver giustificato questa svolta con tre argomentazioni. La prima è legata al deterioramento della situazione militare: a causa della guerra in tutto il Sudan e dell’isolamento prolungato dei Monti Nuba non arrivava più un supporto sufficiente per continuare la resistenza contro il governo di Khartoum, anzi negli ultimi mesi lo SPLM-Nord aveva perso il controllo di alcune posizioni. Di riflesso, la seconda argomentazione: i Nuba non hanno mai chiesto l’indipendenza ma hanno insistito molto sul riconoscimento dei loro diritti all’interno della nazione. E questo riconoscimento, ancor più di fronte a una simile situazione sul terreno, finora non è mai arrivato. L’ultima argomentazione è di natura strategica e culturale. I dirigenti Nuba credevano che l’esperienza accumulata in decenni di conflitto avrebbe potuto esercitare un’influenza positiva sulle Rsf, contribuendo a una gestione più disciplinata delle operazioni militari e a una maggiore tutela dei civili.

L'attacco sull'ospedale con 58 morti

Il problema è che questo avvicinamento tra Rsf e SPLM-Nord sta costando assai caro alla popolazione Nuba. A dimostrarlo è l’attacco avvenuto nei giorni scorsi nella zona di Kumo, una località sotto il controllo dello SPLM-Nord, a circa dieci chilometri da Kauda, uno dei principali centri agricoli della regione. Secondo le informazioni diffuse dal movimento di liberazione e rilanciate dalla stampa, un drone ha colpito un’area civile, provocando la morte di oltre 50 persone, in gran parte studenti e giovani in formazione sanitaria. «È un posto che conosco molto bene», ci racconta padre Kizito: «Non si tratta di un centro di addestramento militare. È una piccola clinica, vicino a una scuola, dove occasionalmente si tengono incontri di formazione per ragazzi e ragazze che prestano servizio sanitario nei villaggi». L’attacco è avvenuto in mattinata, mentre era in corso un incontro all’aperto. «Il primo drone ha colpito all’improvviso – riferisce il missionario – uccidendo molte persone sul colpo. A rendere la strage ancora più grave è stato però un secondo attacco, avvenuto a distanza di pochi minuti. Tra il primo e il secondo attacco erano arrivati altri studenti, bambini della scuola vicina e persone accorse per soccorrere i feriti. Il secondo drone ha colpito anche loro».

Cosa cambia sul piano umanitario

Padre Kizito è arrivato sul posto pochi giorni dopo. «Ho visto con i miei occhi – dice – che non c’era alcuna struttura militare. Era ed è una clinica civile». Ciò che però lo ha colpito maggiormente è stata la modalità dell’attacco. «Non c’era il grande cratere tipico delle bombe. Solo terra bruciata e un piccolo avvallamento». Sono questi gli effetti dei droni che esplodono a pochi metri dal suolo. E che stanno tracciando un salto di qualità nel conflitto sudanese. «Questi droni “kamikaze” non li vedi arrivare, non li senti. Esplodono in una grande palla di fuoco e colpiscono chiunque si trovi nelle vicinanze. Questa – sottolinea Kizito – è una cosa che nei Monti Nuba non si era mai vista». E che, se dovesse continuare, cambia tutto anche dal punto di vista umanitario. Sui Monti Nuba padre Kizito ha avviato, tra il 1995 e il 2006, attraverso l’impegno della comunità Koinonia e dell’associazione Amani, un centro educativo. Questo progetto è stato più volte fermato dalle guerre, ma dal 2026 dovrebbe tornare operativo. Insieme a Kizito sui Monti Nuba opera poi Tom Catena, missionario laico cattolico e medico statunitense presso l’ospedale Madre della Misericordia, a Gidel. Lo scorso 21 ottobre, sulle pagine del nostro giornale Catena aveva già lanciato l’allarme per l’epidemia di colera che, dal nord del Sudan, aveva raggiunto i Monti Nuba. «Siamo arrivati per aprire un ospedale di riferimento nella regione dei Monti Nuba — ci aveva raccontato il medico — e da una piccola struttura di 80 posti letto siamo in costante crescita. Abbiamo molti reparti: i normali reparti medici e chirurgici per adulti e bambini; un reparto per la tubercolosi e la lebbra; ora anche un ambulatorio oculistico con un ufficiale clinico specializzato in chirurgia oculare; un ambulatorio dentistico; un reparto di fisioterapia; un programma di assistenza sul territorio con 19 cliniche sparse in tutta la regione, che sosteniamo inviando personale, fornendo medicinali e formando lo staff locale. Insomma, in questi 17 anni il lavoro si è ampliato moltissimo. Oggi accogliamo pazienti provenienti da tutte le montagne Nuba, da ogni parte del Sudan, nonostante la guerra, e perfino dal nord del Sud Sudan».

Dove trovare la speranza

Di fronte a un esempio simile, padre Kizito non esita ad ammettere che «nell’impegno del dottor Catena io vedo il cristianesimo vivo. Tom è una roccia. È sereno, tranquillo, forte, è una di quelle persone che, se un giorno dovessero scappare tutti, probabilmente sarebbe l’ultima ad andarsene». E sembra in buona compagnia perché gli oltre due milioni di Nuba paiono tutti intenzionati a restare, a resistere. Quando nel 1982 i missionari comboniani furono espulsi dall’intera regione, rimasero soltanto tre catechisti: Paul, Gibril e Moussa. Tredici anni dopo, nel 1995, alla vigilia del suo primo viaggio nei Monti Nuba, Kizito ricevette un incarico preciso da monsignor Antonio Menegazzo, suo confratello comboniano, primo missionario arrivato nella regione nel 1952 e poi vescovo amministratore apostolico di El-Obeid: ritrovare Paul, Gibril e Moussa. Così avvenne. Kizito, arrivato nell’agosto del 1995 con un piccolo aereo a sette posti, tirò fuori il foglietto con i tre nomi e, ci racconta, «chiedo se conoscono qualcuno che si chiama così. E uno dice: “Io sono Gibril”. Da quelle dieci famiglie iniziali, la comunità era aumentata prima a cento, poi a mille. In questi giorni ho rivisto Paul, che ora ha 85 anni ma che è rimasto nella zona più remota dei Nuba, la più lontana da tutti, dove ha formato generazioni di catechisti. C’era una grande comunità cristiana, qui nei Nuba: una fede magari con una formazione sommaria, ma più del catechismo – conclude Kizito – credo sia importante questo: accogliere e proteggere quella disposizione d’animo per cui, quando una cosa arriva da Gesù, è giusta, la si accetta e la si segue».

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16 dicembre 2025, 13:55