Il Papa: Dio scende nei nostri inferi, ogni storia può essere toccata dalla misericordia
Tiziana Campisi – Città del Vaticano
Non c’è passato così rovinato, non c’è storia così compromessa che non possa essere toccata dalla misericordia.
È il “mistero del Sabato Santo”, quindi la discesa agli inferi di Cristo per la salvezza dell'umanità, il tema dell’ottava catechesi che Leone XIV sviluppa all’udienza generale tenuta stamani, 24 settembre, in una piazza San Pietro bagnata dalla pioggia. Il Pontefice dedica ancora alla Pasqua di Gesù la sua meditazione, nell’ambito del ciclo giubilare “Gesù Cristo nostra speranza”. Circa 35 mila i pellegrini nell'emiciclo del Bernini che il Papa percorre in lungo e in largo sulla papamobile fermandosi per benedire dei bambini, dopo aver salutato, in italiano e in inglese, alcuni fedeli e malati radunati nell'Aula Paolo VI : "Sono molto felice di essere con voi, grazie per essere qui!", dice, "che il Signore vi dia tanta pace nel cuore". Altri gruppi vengono raggiunti poi nel cortile del Petriano, dove è stato collocato un megaschermo che trasmette le immagini della piazza.
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Il compimento dell’amore di Dio
Prendendo la parola, il Vescovo di Roma sviluppa la sua riflessione sul giorno seguente la morte di Cristo, “in cui tutto sembra immobile e silenzioso” ma in realtà momento nel quale “si compie un’invisibile azione di salvezza”. Gesù “scende” infatti “nel regno degli inferi per portare l’annuncio della Risurrezione” a quanti “erano nelle tenebre e nell’ombra della morte”, perciò “il Sabato Santo è l’abbraccio silenzioso con cui Cristo presenta tutta la creazione al Padre per ricollocarla nel suo disegno di salvezza”. Si tratta del “gesto più profondo e radicale dell’amore di Dio per l’umanità”, sottolinea il Papa: Cristo non solo è morto per noi, ma “la fedeltà del suo amore ha voluto cercarci là dove noi stessi ci eravamo perduti”, qui si è spinta “la forza” della “luce” di Dio, “capace di attraversare il dominio delle tenebre”. Se Gesù è sceso “fino a lì, nulla può essere escluso dalla sua redenzione”, rimarca Leone, né “le nostre notti”, “le nostre colpe più antiche”, e “i nostri legami spezzati”.
Cari fratelli e sorelle, scendere, per Dio, non è una sconfitta, ma il compimento del suo amore. Non è un fallimento, ma la via attraverso cui Egli mostra che nessun luogo è troppo lontano, nessun cuore troppo chiuso, nessuna tomba troppo sigillata per il suo amore.
Quando, poi, “ci sembra di toccare il fondo”, occorre ricordare che “quello è il luogo da cui Dio è capace di cominciare una nuova creazione”, dove ci sono “persone rialzate”, “cuori perdonati”, “lacrime asciugate”.
Quella condizione in cui regna la solitudine
E si sofferma proprio sugli inferi, il Pontefice, chiarendo che “nella concezione biblica” sono da intendere come “una condizione esistenziale: quella condizione in cui la vita è depotenziata e regnano il dolore, la solitudine, la colpa e la separazione da Dio e dagli altri”. “Cristo ci raggiunge anche in questo abisso”, assicura Leone, in pratica entra “nella casa stessa della morte, per svuotarla, per liberarne gli abitanti, prendendoli per mano ad uno ad uno”. Tutto questo ci dimostra che “l’umiltà” di Dio “non si ferma davanti al nostro peccato” e “non si spaventa di fronte all’estremo rifiuto dell’essere umano”.
La morte a causa del male e del peccato
Sulla discesa agli inferi di Gesù, il Papa richiama la prima Lettera di Pietro, nella quale si legge che Cristo “andò a portare l’annuncio di salvezza ‘anche alle anime prigioniere’”. Un’immagine “sviluppata" nel Vangelo di Nicodemo, un testo apocrifo, dove viene spiegato che “il Figlio di Dio si è addentrato nelle tenebre più fitte per raggiungere anche l’ultimo dei suoi fratelli e sorelle, per portare anche laggiù la sua luce”. Da tali pagine emerge che “la morte non è mai l’ultima parola”, fa notare il Pontefice, che si rivolge poi all’uomo di oggi per specificare che “questa discesa di Cristo non riguarda solo il passato, ma tocca la vita di ciascuno di noi”.
Gli inferi non sono solo la condizione di chi è morto, ma anche di chi vive la morte a causa del male e del peccato. È anche l’inferno quotidiano della solitudine, della vergogna, dell’abbandono, della fatica di vivere. Cristo entra in tutte queste realtà oscure per testimoniarci l’amore del Padre. Non per giudicare, ma per liberare. Non per colpevolizzare, ma per salvare. Lo fa senza clamore, in punta di piedi, come chi entra in una stanza d’ospedale per offrire conforto e aiuto.
Con autorità e dolcezza
Ai Padri della Chiesa si deve la descrizione di Gesù che raggiunge l’uomo nelle sue oscurità, “come un incontro: quello tra Cristo e Adamo”, aggiunge Leone XIV, che apre ad una lettura più ampia.
Il Signore scende là dove l’uomo si è nascosto per paura, e lo chiama per nome, lo prende per mano, lo rialza, lo riporta alla luce. Lo fa con piena autorità, ma anche con infinita dolcezza, come un padre con il figlio che teme di non essere più amato.
La solidarietà di Dio
Alcune icone orientali che raffigurano la Risurrezione con Cristo “mentre sfonda le porte degli inferi e, tendendo le sue braccia, afferra i polsi di Adamo ed Eva”, fanno comprendere, poi, che Gesù “non torna alla vita da solo, ma trascina con sé tutta l’umanità”.
Questa è la vera gloria del Risorto: è potenza dell'amore, è solidarietà di un Dio che non vuole salvarsi senza di noi, ma solo con noi. Un Dio che non risorge se non abbracciando le nostre miserie e rialzandoci in vista di una vita nuova.
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