Giubileo delle equipe sinodali: convertire le relazioni per essere "una cosa sola"
Edoardo Giribaldi — Città del Vaticano
Uno sguardo colmo di speranza, volto a “ciò che sarà” nel solco della sinodalità. Oltre le sue tensioni, tra "io e noi", "unità e uniformità", "preservazione e missione". Per un'autentica "conversione delle relazioni”, che diventa “profezia sociale”, nella denuncia "dell’abisso tra i gruppi sociali” e accende la chiamata di Gesù: “Essere una cosa sola”. Sono questi alcuni dei temi approfonditi nel corso degli interventi introduttivi del Giubileo delle equipe sinodali e degli organismi di partecipazione, ascoltati oggi, 24 ottobre, nell’Aula Paolo VI. Tra i relatori, il cardinale Mario Grech, segretario generale della Segreteria Generale del Sinodo; il cardinale Grzegorz Ryś, arcivescovo di Łódź in Polonia; Miguel De Salis Amaral, portoghese, professore straordinario di Ecclesiologia nella facoltà di Teologia della Pontificia Università della Santa Croce; Mariana Aparecida Venâncio, membro della Commissione nazionale di animazione per la fase attuativa del Sinodo in Brasile. Gli interventi sono stati moderati dal vescovo agostiniano Luis Marín De San Martín, sottosegretario della Segreteria generale del Sinodo.
Grech: sperare, radicati in Gesù
Nel suo saluto, il cardinale Grech ha richiamato Il Portale del Mistero della Speranza di Charles Péguy, ricordando la visione che l’autore diede delle tre virtù teologali: "la fede vede ciò che è, la speranza vede ciò che sarà, e l’amore ama ciò che è". Una bussola, un’architettura spirituale per “re-immaginare” come la Chiesa “ascolta, discerne e cammina insieme”. L’amore, nella visione del segretario generale della Segreteria del Sinodo, non è soltanto “emozione”, ma la postura con cui "abitiamo” la Chiesa: essa non attende la perfezione, ma sceglie di accogliere la realtà “così com’è”. È la “decisione di rimanere presenti”, segno di una maturità spirituale che riconosce come l’unità non coincida con l’uniformità. L’amore — ha proseguito Grech — va di pari passo con la fede, lente attraverso cui, nella Chiesa, “vediamo qualcosa di più che umano, qualcosa di divino”. Non si tratta di “cieco ottimismo”, ma di una chiara visione della realtà, che nel cammino sinodale trova inizio nell’ascolto radicale del grido di chi, nella società odierna, vive ai margini. In terzo luogo, la speranza. Péguy la inserisce nella visione comune del futuro come “rassicurazione” di ciò che verrà, radicata “nella persona di Gesù Cristo e nella certezza di ciò che Dio ha promesso a Lui”. La speranza richiede dunque un atteggiamento di “lasciare andare”, di lavorare “senza possedere ciò che costruiamo”. Si guarda a ciò che verrà con fiducia — ha aggiunto il porporato — non perché se ne intravedano già i risultati, “ma perché abbiamo incontrato colui che ha in mano il futuro”. Un concetto chiave per comprendere il processo sinodale: “molto è stato fatto”, ma il lavoro che resta prosegue con umiltà. “Abbiamo fatto la nostra parte, il resto è nelle mani di Dio.” Come ricordava a proposito Péguy, “la speranza ama ciò che deve ancora venire”.
Ryś: farsi "Chiesa povera per i poveri"
Il cardinale Ryś ha incentrato il suo intervento sulle tensioni “rivelate” dalla sinodalità, individuandone tre principali. La prima riguarda la dicotomia tra l’“io” e il “noi”. La sinodalità invita a una “conversione relazionale”, ma il mondo teme proprio i rapporti più veri e duraturi. L’unico legame che si comprende sembra essere quello competitivo — “Ho ciò che tu non puoi avere!”. Il secondo punto di tensione è tra unità e uniformità. Da un lato, la Chiesa è comunione; dall’altro, la “tentazione” dell’omologazione diventa seme di divisione, incapace di abbracciare gli ideali di “diversità e varietà”. Sant’Agostino e san Francesco di Sales, ha ricordato il Ryś, paragonavano la Chiesa a un giardino rigoglioso di fiori differenti. Non sono, quindi, le diversità a dividere, ma l’orgoglio e l’abuso di potere. In tal senso, la sinodalità è “medicina” che prescrive ascolto e scambio di doni spirituali. Da qui deriva la terza tensione: tra preservazione e missione. La sinodalità è il volto di una “Chiesa in uscita”, aperta a “tutti, tutti, tutti”, come afferma Papa Francesco. Per abbracciare l’intera famiglia umana, la comunità ecclesiale è chiamata a una nuova identità: a disfarsi di “sofisticate strutture” per diventare davvero “la Chiesa povera per i poveri”.
De Salis Amaral: sacerdozio ministeriale e comune sono interdipendenti
Del concetto di “conversione delle relazioni”, accennato dal cardinale Ryś, ha parlato approfonditamente il professor De Salis Amaral. Essa non è un “semplice invito a volerci bene” — che rischierebbe di ridurre il messaggio a un moralismo superficiale — ma un richiamo a riscoprire il significato più profondo della sinodalità. Il professore portoghese ha indicato alcuni possibili passi in avanti, fondati sulle relazioni che scaturiscono dai sacramenti, dal legame “che Dio stesso ha istituito tra noi e Lui”. In primo luogo, il Battesimo, relazione filiale e fraterna che chiama ciascuno, "ci abilita e ci rende responsabili", divenendo la più essenziale nella vita della Chiesa. Poi l’Ordine, servizio “specifico” orientato alla “crescita degli altri come discepoli missionari”. La salvezza — ha affermato De Salis Amaral — non nasce da una conoscenza personale, “come sostiene la gnosi antica e moderna”, ma proviene dall’esterno: “è dono che ci raggiunge attraverso la Parola ascoltata nella fede: fides ex auditu”. Il sacerdozio ministeriale e quello comune dei fedeli restano in reciproco orientamento, rendendo nessuno “autosufficiente” all’interno della comunità ecclesiale. Un concetto che, nella visione del professore, merita di essere riscoperto e approfondito, poiché la struttura della Chiesa deve rifarsi alla vitalità di tali legami, senza ridursi a mera “organizzazione”. Sacerdozio ministeriale e comune si fondano, perciò, su un’interdipendenza che, viva e operante nel tempo, partecipa dell’unicità di Cristo.
Venâncio: la sinodalità antidoto alla "piaga delle polarizzazioni"
“Una Chiesa sinodale è come un vessillo innalzato tra le nazioni.” Da questa affermazione di Papa Francesco si è sviluppata la riflessione della dottoressa Venâncio, che ha ripreso anche il Documento finale dell’ultima Assemblea dei Vescovi, dove la sinodalità è definita “profezia sociale”. Essa non rappresenta solo un impianto strutturale della Chiesa, ma anche il suo modus vivendi et operandi. Passare dall’“io” al “noi ecclesiale” significa proporre un modello di comunità ispirato ai primi apostoli, in un clima di “reciprocità e gratuità” che diventa già profezia nella società individualista e dalle “relazioni liquide”. Venâncio ha citato il caso del suo Paese, il Brasile, dove molte persone — nella prima fase del Sinodo — hanno dichiarato di essersi sentite “ascoltate per la prima volta” dalla Chiesa. È anche questo un modo per contrastare “la dittatura dell’economia che uccide”, denunciata sia da Papa Francesco sia da Papa Leone XIV nella sua Esortazione apostolica Dilexi te. Il dialogo sinodale, inoltre, si presenta come antidoto alla “piaga delle polarizzazioni” che attraversa la Chiesa e la società. “È possibile ascoltare e instaurare dialoghi fecondi che non uniformano, ma uniscono pensieri e posizioni diverse nel nome del principio fondamentale secondo cui l’unità prevale sul conflitto.” Tutto ciò deve condurre anche a denunciare “le cause strutturali che perpetuano l’abisso tra i gruppi sociali, contro l’avidità che si insinua nei poteri pubblici e contro la passività di fronte alle disuguaglianze, ai pregiudizi e alle segregazioni”. In conclusione, la Chiesa è chiamata a ricevere nuovo impulso dalla centralità dell’annuncio, del kerygma, rendendo la sinodalità un modello dell’essere stesso della Chiesa: risposta viva alla chiamata di Gesù a essere “una cosa sola”.
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